Gianfelice Facchetti: “Mio padre Giacinto mi ha insegnato che vale la pena impegnarsi per ciò in cui si crede”
Attore, drammaturgo, regista, si è formato presso la scuola di teatro di “Quelli di Grock” e, non possiamo non dirlo, è figlio di un capitano, Giacinto, bandiera dell'Inter e della nazionale. Gianfelice Facchetti si racconta oggi a Fanpage.it.
È uscito, da poco, il tuo ultimo libro Capitani- Miti, Esempi, Bandiere. Ma ne esistono ancora, nel calcio di oggi?
Se parliamo di miti, ci sono. Per i più giovani, sono miti diversi. Hanno una consistenza differente e, magari, una durata più effimera, con genesi diversa. Ci sono anche degli esempi, anche se siamo circondati da un contesto culturale e comunicativo che tende più a stigmatizzare, portando alla luce un esempio in un'accezione negativa, piuttosto che positiva. Noi dovremmo, invece, puntare l'obiettivo in una direzione opposta. Di bandiere, è più difficile trovarne, perché è un calcio che cambia moltissimo; cambiano le società, le proprietà, le rose. In un mondo liquido, anche il calcio non può non andare in una direzione simile.
Quindi, è più difficile che ci siano calciatori che comincino la carriera con una maglia e poi la finiscano con la stessa, anche se credo, ho l'impressione, che qualcosa stia cambiando. Non dico che ci sarà un ritorno totale a quello che è l'immaginario del calcio di una volta, ma c'è la sensazione che ci sia un ritorno a una considerazione, da parte di qualche giocatore, che ci si possa anche ‘accontentare', pur sempre in una condizione di privilegio, in cui si guadagna molto. Non necessariamente ci deve essere un gioco al rialzo, per continuare con la stessa maglia. Qualcosa davvero, forse, sta cambiando.
Hai detto: “Un capitano, non è migliore degli altri, è semplicemente diverso”. Ma chi è, allora, il capitano?
Nelle storie che ho raccontato, ci sono capitani che lo sono diventati, perché nettamente più forti degli altri, capitani perché hanno indossato quella maglia da sempre, poi capitani, i più amati, che avevano la capacità di distinguersi perché magari parlavano poco, sapevano dosare le parole e non le usavano mai a sproposito.
Vogliamo fare qualche nome?
Se guardo alla copertina del mio libro, Franco Baresi, Gaetano Scirea, Valentino Mazzola, Agostino Di Bartolomei…
E papà Giacinto.
Sì, certo. Questo senso della misura passava, sì dalle parole, ma anche dai gesti. Si parla di calciatori molto corretti, che si sapevano controllare, che sapevano comunicare, trovando magari anche le parole giuste per i compagni, quando servivano, fare i gesti giusti, non solo tecnici, ma che andavano oltre l'essere calciatori, oltre il calcio, oltre il campo.
Tu, il tuo libro, lo hai cominciato con Gigi Riva, che capitano non lo è mai stato.
Sono partito con lui perché era stato proprio il paradigma della distanza. È morto quando si è giocata la Supercoppa italiana in Arabia Saudita. Mi aveva colpito l'episodio disgustoso del minuto di silenzio, subissato da fischi, perché in quel Paese non è contemplato il ricordo dei morti. Mi è sembrata, innanzitutto, una grande mancanza di rispetto nei suoi confronti, il fatto di non sapere questa cosa.
Gigi Riva è il calciatore che si identifica totalmente con una maglia, un popolo, una terra. È il calciatore, capitano per acclamazione, che riesce a farsi interprete di un sentimento. Questo travalica lo sport perché noi abbiamo bisogno di miti, bandiere, esempi, capitani in tutte le sfere della nostra vita. Purtroppo, ne siamo assolutamente privi. Il nostro limite è di andare a sbattere contro l'assenza di figure così.
Giacinto Facchetti, papà da te molto amato. Che cosa ti manca di lui e che cosa ti ha lasciato dentro?
Di un genitore, a cui hai voluto bene e che ti ha dato tutto, ti manca qualsiasi cosa. Ti manca il tempo, ti mancano i giorni, le occasioni di condivisione. È un aspetto totalizzante. Ti manca la presenza di chi ti ha accompagnato, fatto crescere e diventare uomo. Lo vorresti accanto, ogni tanto, nelle tue giornate, nella tua vita. Mi ha lasciato, fortunatamente, tante cose: sicuramente il fatto di seguire ciò in cui si crede, quello che si ritiene meriti la nostra fatica. Per tutto ciò occorre spendersi fino in fondo, non risparmiarsi mai, cercare di fare sempre quel qualcosa in più. Questi concetti arrivavano dal campo, dall'allenamento. Concetti molto pragmatici, che puoi portarti in tutte le sfere della vita: non accontentarsi mai, riuscire a portare il limite sempre più in là, essere sempre più esigenti con se stessi.
Che cosa ti ha confidato papà sulla sua seconda squadra preferita?
Si diceva, in un'intervista dimenticata, che i pezzi grossi della grande Inter dovessero lasciare e, alla domanda dove eventualmente avesse voluto andare a giocare, rispose: a Napoli. In effetti Napoli e il Napoli gli avevano sempre portato fortuna: contro il Napoli aveva segnato il suo primo gol in serie A, a Napoli aveva scelto, come capitano della Nazionale, il lato fortunato della monetina, nel sorteggio contro l'Urss, dopo la semifinale finita in parità, sorteggio che ci permise di andare in finale e di vincere gli Europei del 1968. Sempre a Napoli era finito il suo compagno di stanza, un fratello per lui, Tarcisio Burgnich. Tutto questo gli fece dire così.
Tu collabori e hai collaborato, con diverse realtà teatrali ed educative: la casa circondariale di Monza e l'Istituto dei ciechi di Milano, ad esempio. Da dove nasce questa attenzione verso i meno fortunati?
È una cosa che ho vissuto, da sempre, in casa, sia con mio padre che con mia madre. C'è sempre stata l'attenzione nei confronti di chi fosse più sfortunato o si trovasse, per qualche ragione, ai margini della vita. Quando ero ragazzino, mamma e papà mi mandavano a fare volontariato in una cooperativa di disabili. Papà ha avuto sempre un pensiero per chi aveva avuto qualcosa in meno dalla vita e quindi, quando poteva fare qualcosa, lui c'era, anche pubblicamente. Sono quindi cresciuto con questo tipo di sensibilità. Io ho sempre avuto un richiamo di attenzione verso il mondo delle carceri.
A Cassano d'Adda, dove abitavo da piccolo, c'era una casa mandamentale e, quando passavo di là, il mio pensiero andava a finire lì dentro, all'interno di quelle mura. Poi ho anche studiato scienze dell'educazione. Tante esperienze, per cui, ogni tanto, utilizzando il linguaggio a me più congeniale, quello del teatro, quando posso, cerco di fare qualcosa, portando un po' di positività, dove serve.
Lasciando un attimo da parte la tua attività di scrittore, tra regista, autore e attore quale figura ami di più?
Dico attore perché è tutto partito da lì. Ho studiato recitazione e ho fatto quello per diversi anni. Dalla recitazione, a un certo punto, ho sentito il bisogno di cominciare a scrivere e ho iniziato a farlo per il teatro, poi la scrittura si è allargata: giornali, libri, successivamente gli spettacoli e, alla fine, ne ho curato la regia. Ma tutto, come ti dicevo, è partito dall'essere attore. La recitazione, è quella che ha mosso tutto.
Torniamo al calcio. Nell'aprile 2021 hai pubblicato il libro C'era una volta a San Siro – Vita, calci e miracoli, con la prefazione di Luciano Ligabue. Ecco, San Siro, cosa pensi di questa telenovela infinita?
Penso quello che mi auspicavo quando scrissi quel libro. Era il tempo della pandemia, lo stadio era vuoto. In quel momento, mi dissi: facciamo parlare San Siro, la sua storia. Per capire e fare una scelta di senso. Ho sempre auspicato che si privilegiasse la via del restauro, visto che ci sono club come Real Madrid e Barcellona, per fare due esempi, che stanno facendo questa operazione. La spinta iniziale, per l'abbattimento e ricostruzione a fianco, mi sembrava assolutamente fuori luogo, per mille ragioni.
Mi sembra, anche se manca ancora la risposta definitiva, che si vada verso l'ipotesi del restyling. Spero di leggere, prima o poi, l'ok definitivo e sarò lieto di avere contribuito, nel mio piccolo. Ma il merito è stato di quella parte di cittadinanza che si è attivata, ha fatto squadra e ha posto delle ragioni di principio molto fondate. Sarebbe bello leggere, definitivamente, che l'Inter resterà a giocare a San Siro. Mi sentirei anch'io parte di questa scelta.
Tantissime le tue perfomances, le tue rappresentazioni, le tue collaborazioni. I tuoi prossimi progetti?
Ho ripreso a fare questi spettacoli al buio, finalmente, dopo tre anni di stop, dovuti alla pandemia. Vorrei fare uno spettacolo nuovo, nella stagione che arriverà, dedicato al grande Torino, visto che abbiamo fatto, per la Rai, un podcast a puntate.
Il cognome Facchetti quanto ti è pesato e quanto, invece, ti è stato da stimolo per aggredire la vita e non subirla?
Non mi ha mai pesato. È chiaro che, quando magari sei ragazzino e cerchi la tua strada, avere questo tipo di confronto, fatto perlopiù dall'esterno, ti può anche spiazzare. Fondamentalmente sono state tantissime le opportunità di incontri e di conoscenze con persone, incuriosite da ciò che facessi io e comunque sia, no, non ha mai pesato. In famiglia, abbiamo avuto dei genitori che ci hanno fatto tenere tutti con i piedi per terra. Nessuno ci e mi ha mai fatto credere, di essere in credito di qualcosa, per il cognome che si portava.
Un'ultima domanda. Perché, a tuo avviso, papà Giacinto è tra gli “immortali” del calcio?
Credo che si riallacci un po' al discorso che si faceva all'inizio, quello dei capitani. A volte ci sono capitani che entrano lentamente nel cuore dei tifosi, della gente. A volte vi entrano in un attimo, perché riescono a fare qualcosa di particolare in un momento preciso della loro storia che s'incrocia con la storia degli altri. Questo fa sì che entrino nel cuore delle persone e non vi escano più. Io sono stupito, sorpreso, di come, a distanza di ormai quasi 20 anni dalla sua assenza, sia ancora vivo il suo ricordo e di come gli vogliano ancora bene. Una cosa spiazzante. Una bellissima eredità.
Mi sono risposto mille volte e devo dire che la risposta si divide in chissà quante risposte, perché, poi, ognuno racconta le cose che più lo hanno colpito. Evidentemente era capace di interpretare tanti fattori che hanno portato alla gente tanta positività, emozioni, episodi belli. Sento che lui è stato testimone di certi momenti che hanno incrociato la vita delle persone e il fatto che lui sia riuscito ad esserci fino in fondo con tutto se stesso, ha fatto sì che si agganciasse a questa sorta di immortalità, di cui parlavi tu. Sembra proprio così.