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Giada da quando è madre non trova più lavoro: “Ai colloqui mi chiedono solo come mi organizzo con mia figlia”

Giada, 31 anni, vive nel Lodigiano: da quando è madre non trova più lavoro. “Lo Stato non aiuta le aziende e non aiuta le donne, sulle quali cade tutto il peso della gestione familiare. Ma lavorare non è solo contribuire al bilancio della casa: lavorare è indipendenza, è aprire la mente. Così non ce la faccio più”
A cura di Francesca Del Boca
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"Non vedo l'ora di ritornare a lavorare, non ce la faccio più". A parlare è Giada B., 31 anni, residente in provincia di Lodi. "Quando sono rimasta incinta avevo un contratto a termine, alla fine del quale sono stata lasciata a casa. Ma a malincuore ho dovuto abbandonare anche l'impiego che ho trovato tre mesi dopo la nascita della piccola".

Una storia come tante, dal momento che la maternità in Italia continua di fatto ad allontanare dal lavoro: una enorme e silenziosa dispersione di capitale umano e professionale, un'emorragia di persone e talenti tutta nazionale.

Secondo gli ultimi dati Inapp, infatti, soltanto il 43 per cento delle occupate tra i 18 e i 49 anni continua a lavorare dopo la nascita di un figlio (percentuale che crolla al 29 per cento al Sud e nelle Isole).

La motivazione prevalente? La difficile conciliazione tra lavoro e cura (52 per cento) seguita dal mancato rinnovo del contratto o licenziamento (29 per cento) e da valutazioni di opportunità e convenienza economica dovuti al costo di asili, servizi di welfare e tate (19 per cento).

Quando hai iniziato a lavorare?

Ho iniziato a 18 anni, quando ancora andavo a scuola. Per me è sempre stata una necessità, per avere la mia indipendenza e non dover chiedere niente a nessuno.

Il primo impiego è stato quello da cameriera, poi ho fatto per tanto tempo la venditrice di arredi e casalinghi per una grossa multinazionale. Qui, quattro anni fa, ho scoperto di essere incinta.

E cosa è successo?

Ho dovuto comunicarlo immediatamente ai miei superiori: capitava spesso di dover spostare mobili, caricare e scaricare prodotti pesanti. Avevo un contratto a termine, che sarebbe scaduto da lì a breve: quando è arrivato il momento mi è stato detto che l'azienda non poteva riconoscere la maternità fuori dalla scadenza di contratto, senza ovviamente neanche propormi un rinnovo.

Sei rimasta a casa da quel momento?

No, ho iniziato subito a cercare e sono tornata a lavorare dopo tre mesi dalla nascita della bambina, in un negozio di scarpe all'interno di un centro commerciale. In questo caso sono io che, dopo qualche tempo, ho maturato la decisione di licenziarmi.

Cosa è successo?

Mia figlia è stata molto male, con un lungo ricovero in ospedale. In quel periodo, con anticipo e d'accordo con i colleghi che mi venivano incontro, chiedevo spesso di cambiare turno: nello specifico, facevo richiesta di poter lavorare nella seconda parte della giornata per poter avere la mattina libera. In un posto che rimane aperto dalle 9 alle 21, 7 giorni su 7, gran parte dei festivi compresi.

Questo ha creato diversi scontri con la mia responsabile, e ha guastato definitivamente i nostri rapporti: ogni permesso, ogni minima cosa mi veniva fatta pesare per giorni e giorni.

Adesso com'è la situazione?

Dopo una miriade di contrattini di un mese o poco più, cerco da ormai quasi un anno un lavoro vero e proprio. Ma ho 30 anni, e per il mondo professionale sono vecchia.

E soprattutto sono mamma: a ogni colloquio, puntualmente, arriva la domanda sulla mia maternità. E, da quel momento in poi, si parla solo di quello.

Qual è la domanda più frequente che ti fanno, sull'argomento?

Se, visto che ho già una bambina, ho in programma di fare altri figli. Se posso contare su una tata o sull'appoggio dei miei genitori nella gestione di mia figlia.

Tu cosa rispondi?

Che sono affari miei e del mio compagno. Le scelte famigliari, in una società diversa, dovrebbero essere private.

Queste scelte però, al contrario, nel caso delle donne impattano fortemente sulla professione. Da dove nasce il problema, secondo te?

Il mio compagno sta fuori dalla mattina all'ora di cena, e guai se non ci fosse il suo stipendio. La gestione della bambina e della famiglia è tutta sulle mie spalle, e lo Stato non tutela le donne che diventano madri. Non offre un reale sostegno economico, gli asili e le baby sitter costano tantissimo, e chi non ha la fortuna di avere i nonni accanto a completa disposizione si trova in seria difficoltà. La scarsità dei servizi per la prima infanzia, poi, è palese.

C'è chi risponde che, però, una donna con figli mette in difficoltà il datore di lavoro: assenze prolungate, permessi frequenti, perdite economiche per sostenere il periodo di maternità…

Non dovrebbe succedere, vuol dire che c'è qualcosa che non va. La differenza, in questo ambito, la fa l'apertura mentale e l'umanità del datore di lavoro. Ma non è giusto, è una questione sociale che non può dipendere solo dalla fortuna e dalla magnanimità del singolo.

Avere figli in fondo fa parte della vita, non è certo un'eccezionalità. Una donna non dovrebbe essere un peso per il datore di lavoro, come non dovrebbe sentirsi grata di poter contare su un capo che le viene incontro: è una cosa normale, non un favore.

Perché allora non prevedere delle serie misure apposta per chi assume o per chi ha tra i dipendenti delle donne con figli? Potrebbero essere, ad esempio, degli importanti sgravi fiscali.

Lo Stato, insomma, non aiuta le mamme e non aiuta le aziende: su questo tema fa finta di niente. Poi però è tutto un discutere di crisi demografica, di fare più figli, del valore della famiglia…

Che lavoro cerchi, adesso?

Lavorare non è solo contribuire all'economia della famiglia. Lavorare è indipendenza, è conoscere persone nuove, è confrontarsi con i colleghi e con il mondo esterno. Lavorare è staccare la testa dalla quotidianità casalinga e dalla vita dei bambini.

Questo per me è il lavoro, al di là della mansione specifica. E così non ce la faccio più ad andare avanti.

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