Germano Lanzoni: “Mi definisco praticamente un pirla. Milano? È la capitale dello “sbatti”, ma la amo”

"Milano aveva e forse ha ancora, una capacità di amplificare e di metterti in contatto, in relazione con gli altri. Questa è la parte che amo. Quello che mi fa incazzare, invece, è che riesce a essere esattamente l'opposto", ha detto a Fanpage.it Germano Lanzoni, classe 1966, nato a Brusuglio, frazione di Cormano (Milano). Attore, comico e
continuatore della mitica comicità milanese degli anni '60-'70, è docente, formatore e webstar irriverente di grande successo.
Un giullare contemporaneo, è questa la definizione che ti piace e ti calza di più? E perché dici "praticamente un pirla"?
Mi piace di più perché gradisco di più essere tra quelle persone che hanno deciso di raccontare la verità attraverso la follia. Il mio nuovo spettacolo, per esempio, si intitola Matto con licenza, che era il termine usato ancora prima di giullare. Il termine pirla arriva invece perché tutto sommato io mi conosco.
Il fatto che io abbia talvolta la capacità di cogliere i punti deboli della realtà, delle azioni degli altri, non significa che debba dimenticare i miei. Lo ha detto Alain Vigneau, in Clown Esencial. L'arte di ridere di se stessi: la comicità, se presa per il verso giusto, è un atto di umiltà collettiva. Non serve solo a detronizzare i potenti, ma anche a detronizzare il nostro potente maggiore, che è l'ego.
Sei attore nel cast de Il Milanese imbruttito, in cui interpreti il personaggio del manager e piccolo imprenditore meneghino rampante, dal carattere "bauscia" e de Il Terzo segreto di Satira. Ti sei dato una spiegazione per questo tuo grande successo?
Come sostengo sempre, il successo è arrivato un po' per caso e non casualmente. Quando i founder Marco, Tommaso e Federico hanno creato la pagina, dando vita aduna narrazione meneghina, era il decennale della morte del Dogui (pseudonimo dell'attore comico Guido Micheli), che è stato l'ultimo a indossare "la maschera collettiva".
Loro tre hanno cominciato a raccontare su Facebook: avevano già capito che la piattaforma non era solo un luogo di scambio di messaggi tra ex compagni di liceo, ma di contenuti. Il successo è dovuto alla loro narrazione che, tra meme e foto, raccontava fedelmente il comportamento un po' assurdo, chiamato imbruttito, nel momento di sclero massimo, di un cittadino.
Milano è la capitale dello "sbatti", dello stress. Come diceva Walter Valdi, prima di essere una città, è una maniera di "vivere
di corsa e fare quaranta cose in una volta". Quindi, quella identificazione, in un periodo storico, in una piattaforma nuova, ha attirato l'attenzione.
Quando, un anno dopo, hanno deciso di dare vita a quel personaggio si sono rivolti al Terzo Segreto di Satira, di cui erano fan, che è un collettivo di filmaker, sceneggiatori, autori, registi di una straordinaria eleganza narrativa. Venendo dalla satira, hanno quel gusto che non è mai banale, anche in una comicità leggera come quella del Milanese Imbruttito.
Secondo me, questi due ingredienti, cioè il momento storico in cui mancava colmare un vuoto con un personaggio e farlo vivere attraverso una narrazione non banale, ha portato poi all'attore (chiunque l'avrebbe fatto, per fortuna l'ho fatto io).
Nel contempo, io raccontavo la città da sempre: io indossavo, quindi, un personaggio non in quanto maschera, ma in quanto narrazione. La città cambia così velocemente che basta che tu guardi l'incongruenza tra quello che ti aspettavi che fosse e quello che è, ed è fatta.
Sei portavoce del teatro canzone milanese da ormai 30 anni. Il tuo rapporto con Milano, qual è?
Di grande amore e di grande incazzatura. Non riesco a odiare questa città. Amo Milano perché è la mia città, non perché sia la città più figa del mondo. C'è sicuramente l'appartenenza: mio padre, mia madre, i miei nonni mi hanno raccontato le loro storie in questa città e io mi sono formato, ho studiato, ho avuto i primi palchi.
Milano aveva e forse ha ancora, una capacità di amplificare e di metterti in contatto, in relazione con gli altri. Questa è la parte che amo. Quello che mi fa incazzare, invece, è che riesce a essere esattamente l'opposto. Promette e, a volte, non mantiene.
Sicuramente sei amato da una part di Milano, quella rossonera, e sei speaker ufficiale del Milan nelle gare casalinghe dal 2000. In questo ruolo ti trasformi e tiri fuori tutta l'anima da tifoso rossonero che è in te?
Diciamo che io sono facilitato dal fatto che il luogo è l'inferno, il simbolo è il diavolo e quindi riesco a incanalare il lato rossonero. Poi devo ringraziare mio nonno, milanista e baritono, che mi ha donato geneticamente una voce che mi permette di urlare senza perdere le corde vocali. La timbrica risuona: è un dono dell'Universo o degli Inferi dipende dai punti di vista.
Sei ambasciatore della comicità come strumento di conoscenza e di gestione efficace delle relazioni interpersonali. Mi spieghi meglio cosa significa?
Ecco perché mi definisco "pirla". La capacità di supercazzole è evidente. In realtà con HBE (Humor Business Experience), insieme a Fania Alemanno, ormai dal 2018, cerchiamo di condividere la responsabilità dell'azione comica. Quando faccio una battuta, io distinguo se rido con le persone o delle persone, anche con me stesso o di me stesso. Quando rido con gli altri, quello che creo è costruire una relazione. Se rido degli altri, quello che creo è una distruzione di una relazione.
Ogni battuta è un giudizio. Ogni azione comica parte da una astrazione di sensibilità. Se io vedo una persona camminare per strada e prende un palo in fronte, rido perché non me ne frega niente di quella persona.
Se invece mi preoccupo, vado verso quella persona e non mi parte la risata. La risata parte quando questa si riprende. In assoluto, la comicità è un'astrazione di sensibilità. Non lo dico io: è una frase di Henri Bergson, tratta dal libro Il Riso.
L'osservazione su una reazione istintiva, insensibile, ha bisogno di un'azione responsabile e sensibile per correggere il tiro. Se la persona mi interessa, si parla di umorismo relazionale. La mia preoccupazione è sì, essere ironico ma anche quella di dire che la mia ironia può offendere o far male oppure preservare la reazione e portare fuori dal disagio. Un po' come la magia. Di per sé, la magia è neutra. Dipende dall'intenzione e da come la si usa.
Ti definiscono "il comunicatore contemporaneo". Sei professore aggiunto presso l'Università Bicocca e fondatore di un hub creativo che applica l'umorismo all'intrattenimento, al business e al benessere. Al centro, l'essere umano. In che modo? E poi sei orgoglioso di tutto ciò?
Partiamo dall'ultima parte: orgoglioso è davvero una parola grossa. Nel senso: esercito la velleità di divulgazione di ciò che scopro cercando di non farlo rimanere come mia esperienza, ma di farlo diventare un'esperienza collettiva. Mettere al centro l'essere umano è importante. Quando incontro le persone, per divulgare la responsabilità dell'azione comica, voglio dare
a loro lo strumento per costruire le relazioni con gli esseri umani.
Non si tratta soltanto di una risata, di un cachet, di una piattaforma o una visibilità perché questo è un meccanismo che va in loop abbastanza velocemente. Se la soddisfazione è legata a un riconoscimento economico e di popolarità, non mi accendo particolarmente. È chiaro che la popolarità ti porta la visibilità, la visibilità ti porta richiesta e la richiesta porta denaro, questo è indiscutibile.
C'è però la consapevolezza che, se davvero quelli come me trattano argomenti così importanti, hanno anche il dovere di condividere. Se poi si alza il livello della qualità del pubblico, conosci i sistemi, i meccanismi del gioco e, da artista, sei obbligato ad alzare il tiro del format.
Raccontare e rappresentare Milano, oggi cosa significa?
Essere in continua attenzione sul cambiamento perché la città cambia a velocità pazzesca. Quello che fino a ieri era il trend oggi, per mille motivi, non lo è più. È una città che rischia. Se diventa una città per ricchi e di ricchi, poi perde il senso assoluto del luogo.
È una città che cambia pelle velocemente: l'osservatore, chi la vive, chi è titolato e ha voglia di raccontarla, deve mettere in campo quali sono i rischi di un cambiamento, di un imbruttimento, in questo caso abbrutimento della società. La città ha sempre dato l'opportunità anche ai singoli di raggiungere i propri obiettivi formativi, personali, d'amore, l'individuazione del
percorso. Una società individualista rischia di perdere però il senso della società che è la collettività.
Quando vado in montagna, mi accorgo che le case più sono distanti, più le persone sono vicine. In città, più le case
sono vicine, più le persone sono distanti.
Cambiare il mondo con una risata: è un tuo grande desiderio o una tua grande utopia?
Le due cose coincidono. Quando il tuo obiettivo è un'utopia, hai la certezza che non lo raggiungerai mai, ma avrai tutto il tempo per proseguire il cammino. Quando mi saltava un provino, un lavoro, non venivo riconosciuto, mia cugina diceva: "Ma tu non eri quello che voleva cambiare il mondo? Allora muoviti".
Il rischio è che ci sediamo sulle nostre comodità. Invece, avere un'utopia ti spinge a dire: "In questo giro mi è andata bene, dov'è il percorso maestro? Allora si prende lo zaino e si riparte a camminare perché poi la vita è un viaggio".
Hai fatto diversi film, l'ultimo “Ricomincio da taaacc”. Che cosa rappresenta per te il cinema e cos'hai voluto dire e comunicare in quella che, una volta, si diceva “l'ultima pellicola”?
Il cinema per me è il dono più bello. Ogni volta che vado sul set per me è Natale. Torni perfettamente nella condizione migliore, quella del gioco. E quando il gioco è scritto dal terzo Segreto di Satira e tratta un argomento a me molto caro, il
fatto che anche con una battuta di m…a si può offendere e soprattutto che la parte di Milano che vive ormai ai piani
alti, non immagina lontanamente come sia la vita di chi sta sotto, allora…Il mio personaggio fa un bagno di umiltà. Quel bagno di umiltà serve a lui, ma un po' a tutti.
Quello che abbiamo voluto dire è il mettere a fuoco un po' tutto questo in modo ironico. Far vedere i nostri vizi, i nostri difetti, da un'angolatura divertente.
Rafael Didoni, Folco Orselli, Flavio Pirini, Walter Leonardi, amici, compagni di lavoro, rivali?
No, sono fratelli. Siamo tutti protagonisti del Teatro Canzone, del Cantautorato, di questa narrazione della scuola milanese. Non c'è mai stata una grande rivalità tra di noi. Probabilmente, quando abbiamo iniziato tutti noi, (i maestri si chiamavano Jannacci, Gaber, Valdi, Cochi e Renato), erano talmente bravi, più bravi di noi (e lo sono ancora), che non era una competizione tra noi per prendere il loro posto, era un confronto per chi poteva, in un certo senso, esprimersi come loro, con le proprie possibilità.
Quindi abbiamo condiviso palchi: io, Rafael, Folco, Pirini, Leonardi, abbiamo condiviso laboratori, nottate, con la speranza di poter creare serate in cui noi potevamo esprimerci liberamente, con il nostro talento. Sono passati 25 anni per alcuni, 30 per altri. Ancora ci troviamo sui palchi con la stessa stupidità infantile e con la stessa voglia di sorprenderci e sorprendere.
Questo ti stimola. Quando qualcuno scrive una canzone nuova, un pezzo nuovo, l'altro deve ricordarsi che deve andare a casa,
a scrivere, a sua volta, un pezzo nuovo. Quindi è un continuo confronto costruttivo, non una gara a chi diventa più bravo. Se è una gara, è una gara a chi tira il gruppo e poi, il gruppo gli va dietro.
Un'ultima domanda a due vie: il sogno nel cassetto di Germano Lanzoni e la Milano che vorresti?
Innanzitutto mi piacerebbe capire in quale cassetto l'ho messo. In realtà è continuare a vivere la vita che sto facendo. La bellezza di tutto non è il successo in sé, è che è accaduto, hai fatto quello che volevi fare. Certo oggi hai un'ansia in più: quando finirà? Prima, avevi solo l'ansia di raggiungerlo.
La Milano che vorrei è la Milano in una società che vorrei. Quello che sta venendo fuori, è un nichilismo collettivo, un individualismo esagerato ed esasperato. La società, quindi la Milano che vorrei, è una società in cui tutti possano sentirsi, in modo dignitoso, partecipi. Una società che sappia occuparsi dell'altro. Quella di oggi è sempre più una società in cui il più ricco e il più forte, alzano la voce. E questo mi dà davvero fastidio.
È proprio un concetto di allargare le maglie, anche perché, se tu arrivi anche primo, ma al traguardo sei da solo, mi
spieghi qual è la soddisfazione?