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Gaspare: “Senza Zuzzurro sono morto anch’io, ho usato L’isola dei famosi per ripartire. Ora torno al cabaret”

Dalla morte di Andrea Brambilla, in arte Zuzzurro, alla scelta di partecipare all’Isola dei famosi per uscire dalla “disperazione più profonda”, al futuro con un nuovo spettacolo di cabaret. Nino Formicola (il Gaspare del duo) si racconta a Fanpage.it.
A cura di Paolo Giarrusso
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All'anagrafe, Antonino Valentino Formicola. Meglio conosciuto come Nino Formicola. Ancor più noto, quasi, con il nome di Gaspare, del duo comico Zuzzurro e Gaspare. È milanese, da padre napoletano e da madre catanese. Comico, cabarettista e attore. "Chi fa teatro muore facendo teatro. Di conseguenza, finché mi vogliono sul palco, io ci vado", racconta in un'intervista a Fanpage.it.

Nel 1976 conosci al Derby Club Andrea Cipriano Brambilla, noto con il nome di Zuzzurro, con cui hai dato vita all'affiatata coppia Zuzzurro e Gaspare. Che cosa rappresentava il Derby per cabarettisti e comici?

Stiamo parlando degli anni '70. A Milano il Derby era il cabaret principe, quello più importante. Lì ho conosciuto Andrea, io spettatore e lui sul palco. Faceva parte di un duo: Fosco e Andrea. Lo avevo già visto un'altra volta. Una sera è venuto nell'altro cabaret storico milanese, Il Refettorio, dove c'erano quei comici che ‘non erano da Derby', in pratica. Al Refettorio ho visto Maurizio Micheli, i Giancattivi, Leonardo Mastelloni, impegnati tutti in spettacoli teatrali, più che di cabaret.

Poi c'era la Bullona, dove ho visto Giorgio Faletti e dove si esibiva Beppe Grillo. Insomma, c'era una vitalità incredibile. Era un'altra epoca. Io ho avuto la fortuna di iniziare questo lavoro quando questo non era un lavoro. In realtà era una passione. Un esempio: Walter Valdi, storico cabarettista milanese, faceva l'avvocato. Sul contratto del primo spettacolo che abbiamo fatto in Rai la parola cabarettista non c'era. Infatti, ci hanno fatto il contratto come fantasisti, giocolieri, clown.

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Non stop, La sberla, Drive in. È stato un crescendo con la popolarità raggiunta con Drive in?

È stato un vero e proprio crescendo. Noi, dopo avere fatto La sberla, che è del 1979, ci siamo resi conto di avere avuto una gran fortuna di arrivare subito in Rai, in prima serata, ma in realtà non avevamo le spalle abbastanza larghe. Siamo allora ripartiti da zero e ci siamo fatti le ossa come autori degli altri e abbiamo abbracciato il teatro. Il primo spettacolo è stato nell'80 con Rita Pavone e Teddy Reno. Abbiamo così imparato ad amare il teatro.

Ecco, il teatro che cos'è per Nino Formicola?

Beh! È tutto. Io e Andrea, cinema niente. A noi piaceva avere il pubblico davanti. Quindi, appena abbiamo potuto, siamo passati prima con lo spettacolo di cabaret, poi con Andy e Norman, successivamente con la scrittura di spettacoli teatrali, al teatro. Dal 1994 in poi ci siamo dedicati alle commedie comiche più belle, secondo noi, facendo tutti i classici della comicità, di tutte le epoche. Facevamo i comici, come Dio comanda, all'interno di spettacoli costruiti.

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Il 24 ottobre 2013 sei tu stesso ad annunciare la morte di Andrea Brambilla. Poi interrompi l'attività di cabarettista e dichiari: “Quando Andrea è morto, sono morto anch'io”. Come si riparte in questi casi? Come si crea un nuovo inizio?

Eeehhh! Faticosamente. Molto faticosamente, per il semplice motivo che mi sono trovato in quella situazione a 60 anni. Da solo non avevo mai lavorato. Non mi piace fare il solista, non ho mai amato questo ruolo. Anche per la gente, siccome era morto Andrea, ero morto anch'io. Eravamo una coppia affiatatissima, legatissima, un unicum. Per questo ho deciso di fare l'Isola dei Famosi, per dimostrare che ero ancora vivo e che il comico, l'attore di teatro, era il mio lavoro”.

Hai detto: "Noi non siamo artisti ma artigiani in grado di costruire risate". Non è poco, non ti pare?

Io sono convintissimo di questo. Tanto è vero che il corso che tengo sulla comicità si chiama ‘L'artigianato del comico'. In realtà soffro molto quando sento dire "io sono un artista", perché io ritengo che la parola artista sia il secondo tempo della parola artigiano. Uno fa i mobili, noi facciamo ridere. Ma, per far ridere, bisogna avere la tecnica, così come bisogna averla per dipingere, scolpire, fare i mobili. Per fare qualsiasi cosa, gli artigiani devono avere la tecnica. Nel momento in cui hai la tecnica poi ottieni quello che volevi ottenere. Se poi fai qualcosa che rimane, gli altri, prima o poi, diranno che sei un artista.

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Cinquant'anni di carriera, single da 60 anni (ti sei sposato nel 2018, con Alessandra Raya, dopo una proposta di matrimonio all'Isola dei Famosi), ti sei appassionato alla cucina “sincera”. Che significa?

Io ho cominciato a cucinare per disperazione, perché passavo la vita nei ristoranti e va bene mangiare tutte le "figate" che ti propongono (scusa il francesismo), ma fino a un certo punto. Arrivi che hai voglia del pollo con le patate. Quindi mi sono messo a cucinare quello che non trovavo più al ristorante e le cose che non fai più a casa, perché non hai tempo. Da lì, poi, sono partito, mi sono appassionato e ho cominciato a cucinare cinese, giapponese,  coreano, marocchino, francese. Cerco di cucinare bene le cose, come andrebbero fatte. Molto semplicemente.

Ti sei rimesso in gioco a 64 anni, che cosa ha voluto dire per te?

Ha significato cambiare la vita. Tuttora mi è stato richiesto uno spettacolo di cabaret, che sto preparando, facendo una fatica incredibile. È stato difficile perché, di colpo, mi sono sentito come un generale, diventato caporale. C'era un peso di una carriera alle spalle, che però non valeva niente, in quanto ero rimasto solo. E da solo non avevo mai fatto nulla. Questo, poi, ahimè, è stato usato come pretesto per abbassarmi il cachet. Indubbiamente, una cosa non bella.

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Una domanda delicata. È vero che, dopo la morte di Andrea, hai anche pensato al suicidio?
(Qualche secondo di silenzio) L'idea del suicidio, francamente, non mi appartiene, perché io sono uno che, comunque, ama la vita. Diciamo che sono caduto in buco nero di disperazione. Soprattutto vivevo l'incapacità di pensare che cosa dovevo fare. Mi sono trovato da solo a dover prendere delle decisioni che non avevo mai preso. Ho provato la disperazione più profonda, quella sì.

La Milano degli anni '70 e la Milano del 2024. Come è cambiata la città? La riconosci, la capisci, la ami, la detesti?

Dunque, io sono andato via da Milano l'anno scorso, perchè non la reggo più. Non reggo più e non capisco più un sacco di cose, di Milano. Sarò invecchiato… Milano è diventata sicuramente più bella, però è diventata una città che, per viverci, devi avere i miliardi. È carissima e sta diventando, per chi, come me, usa la macchina, una città piuttosto scomoda. Circolare per Milano, con i monopattini che sfrecciano da ogni parte, le biciclette contromano senza fari e senza luci, le strade sempre più strette, è diventato impossibile. Non sopporto le mamme in bici, con i bambini, sempre al telefono, mentre vanno. Tutto questo non mi piace. Capisco la transizione ecologica, capisco il Sindaco Sala, capisco tutto, però credo che si stia un po' esagerando. Credo che vivere a Milano, oggi, sia alquanto difficile.

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Come vorrai chiudere la carriera, Nino?

Non ho ancora pensato a questo. Purtroppo, o per fortuna, chi fa teatro muore facendo teatro. Di conseguenza, finchè mi vogliono sul palco, io ci vado. Ai miei amici ho detto: "Se, ad un certo punto, vi rendete conto che non sono più io, che ho perso lucidità, scatto e tempistica… abbattetemi a fucilate! Io non me ne renderò conto, ma voi sì”.

Hai rimpianti particolari?

No, non ne ho. Io appartengo ad una categoria rara: nella mia vita ho scelto di fare e ho fatto quello che mi piaceva. Non  ho fatto ventimila lavori. Studiavo medicina e ho deciso di smettere per fare questo lavoro. E mi è andata anche molto bene. Più di questo che cosa potevo volere dalla vita?

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