Donna picchiata dai vigili a Milano, Amnesty: “Dal Governo arriva una cultura che non difende i diritti”
Dopo l'episodio di violenza nei confronti di una donna, picchiata con manganelli da quattro agenti della polizia locale, si è tornati a discutere sulla possibilità di introdurre codici identificativi per gli agenti delle forze dell'ordine e di dotarli di bodycam proprio per risalire ai responsabili di violenze e abusi.
Al di là del fatto che i poliziotti di Milano ripresi nei video del pestaggio alla donna siano stati subito identificati, è necessario interrogarsi sulla possibilità di dotare gli agenti di strumenti che possono essere anche un deterrente per ulteriori abusi di potere.
Certo è che questa proposta continua a incontrare ostacoli posti da una classe politica che incentiva l'attività di repressione sul territorio, attraverso corpi di polizia che sono sempre più assimilati ad altre forze dell'ordine, e che propone una cultura che non difende pienamente i diritti di tutti.
"C’è un’area generale che spinge verso questa direzione: chi sta sul territorio percepisce che dai palazzi del Governo si propone una cultura che non difende pienamente i diritti e che forse si compiace dell'impunità che viene data a coloro che li violano soprattutto se sono funzionari dello Stato", spiega a Fanpage.it Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia.
Cosa pensa delle immagini pubblicate alcuni giorni fa e che mostrano un abuso nei confronti di una persona?
Quelle immagini ci mostrano chiaramente un comportamento violento e illegale nei confronti di una persona completamente inerme. Questo è un punto definitivo. È inesistente il collegamento tra quanto accaduto precedentemente e il pestaggio. Quanto mostrato è una violenza nei confronti di una persona razzializzata, sulla quale si è scaricata una tempesta di odio che ha confuso l'identità di genere con la pedofilia.
È stata fatta una narrazione che per ore e ore, fin quando la Procura non ha fornito chiarimenti, si è concentrata sull'esibizione dei genitali davanti ad alcuni bambini. Una spiegazione utilizzata come giustificazione a un pestaggio. Ci sono tutti gli elementi per accertare le responsabilità e punirle in maniera adeguata.
Da anni vi battete per chiedere che venga dato un codice identificativo a tutti gli agenti, l’episodio dell’altro ieri è una dimostrazione di quanto sia necessario?
Nel caso specifico le persone sono state facilmente individuate. È anche vero che quanto accaduto a Milano e a Livorno dimostra come ci siano tantissimi casi simili e probabilmente ce ne sono tanti altri di cui non sappiamo nulla perché non sempre ci sono cittadini che riprendono con i telefoni.
In altre situazioni, soprattutto in casi di ordine pubblico e manifestazioni, il tema del codice identificativo è fondamentale. Amnesty International ha avviato questa campagna nel decimo anniversario dei fatti di Genova. Purtroppo non ha prodotto ancora alcun risultato nonostante diminuisca il numero di Paesi che non ha questa norma. Oggi, in Unione Europea, sono pochissimi gli Stati che non lo prevedono, tra i quali l'Italia.
Un altro tema è quello della formazione: visto che c'è un nuovo capo della Polizia sarebbe importante dare un segnale di discontinuità. Ribadendo quali sono i comportamenti leciti e distinguendoli da quelli illegali e spiegando che ci sono in Italia sempre più vulnerabilità sulle quali non ci si può accanire proprio perché si tratta di persone vulnerabili.
Negli anni c'è stata una militarizzazione dei corpi di polizia?
Il tema dell’ordine pubblico sul territorio è diventato sempre più frequente. Al tema della criminalità organizzata, si è affiancato quello della criminalità comune. Per cui questa tendenza di avere locali di polizia armata, anche con le pistole a impulso elettrico, è stato incentivato. Lo si è fatto probabilmente per dare l’idea che si era, rispetto al territorio, molto duri in quanto a legge e ordine.
È vero che c’è stata questa militarizzazione, ma è vero anche che c’è un’area generale che spinge verso questa direzione: chi sta sul territorio percepisce che dai palazzi del Governo si propone una cultura che non difende pienamente i diritti e che forse si compiace dell'impunità che viene data a coloro che li violano soprattutto se sono funzionari dello Stato.
Penso anche al tema del reato di tortura: ci sono voluti 29 anni per averlo e se ne riparla nuovamente con proposte di legge di Forza Italia e pronunciamenti del ministro della Giustizia.
L'episodio delle violenze alla donna a Milano, dimostra che c'è un clima di odio nei confronti di alcune categorie?
Sì, non è un tema che nasce oggi: per esempio pensiamo alla cosiddetta emergenza nomadi del 2011 quando si additò un gruppo piccolissimo di persone che aveva un'unica colpa di essere irriducibilmente diverso e poco accomandante rispetto a noi.
Credo che ci sia una narrazione che vuole indicare sempre quale sia minaccia. Poi questa narrazione è più forte o meno in base alla cultura politica che si afferma. In questo frangente è molto forte, ma lo era anche quando Matteo Salvini era ministro dell'Interno o anche quando lo era Marco Minniti.
Cosa pensate invece delle body cam?
Noi non abbiamo mai espresso un parere contrario: ogni strumento che possa aiutare a garantire trasparenza e possa essere un deterrente, va benissimo. Diverso è quando ci viene chiesto di utilizzare le body cam al posto di codici identificativi: le body cam possono essere accese e spente, è possibile spostare l'inquadratura. Negli Stati Uniti hanno avuto un effetto deterrente, però la nostra richiesta è un'altra: non deve essere alternativa ai codici.
La formazione poi è fondamentale: noi non siamo il partito dell'anti-polizia. Lo Stato ha il monopolio della forza. Deve esercitarlo nel rispetto di standard internazionali ben precisi. Le forze di polizia devono essere formate al rispetto di questi standard: se vanno in piazza senza saperlo, pensano che tutto sia legittimo.