Detenuti con disturbi mentali, la denuncia di una mamma: “Quanti altri Giacomo devono morire in carcere?”
Ha suscitato tristezza e indignazione il caso di Giacomo Trimarco, il ragazzo morto suicida nel carcere di San Vittore, quando anziché lì avrebbe dovuto trovarsi in una comunità terapeutica per curare il suo disturbo di personalità borderline. Un altro Giacomo, suo amico e in passato compagno di detenzione al Beccaria di Milano, si trova oggi nella stessa situazione e rischia la stessa fine. Fanpage.it è andata a parlare con la mamma, Maria Gorlani.
Insieme in carcere e nella malattia
“Giacomo Trimarco era amico di mio figlio e io e mio marito dei suoi genitori. Erano stati insieme nel carcere minorile e, essendo entrambi affetti da disturbo di personalità borderline, tutti e due presentavano lo stesso tipo di problemi e di comportamenti, per questo è nata subito la solidarietà tra le nostre famiglie”. La storia di Giacomo, il figlio di Maria, inizia però molto prima: “A 7 anni abbiamo iniziato a portarlo da psicologi e psichiatri, pubblici e privati: era irrequieto e soprattutto non riusciva a contenere rabbia e frustrazione”. Ma la diagnosi arriva tardi: “Il disturbo di personalità borderline viene diagnosticato generalmente dalla maggiore età – spiega Maria a Fanpage.it -, anche se i comportamenti patologici emergono ben prima”.
Cos’è il disturbo borderline di personalità?
Il disturbo borderline di personalità è una malattia psichiatrica che colpisce tra l’1 e il 2% della popolazione mondiale e si riscontra tre volte più frequentemente nelle donne rispetto agli uomini (dati Normalarea). A differenza di altre patologie fisiche e psichiche non ha sintomi definiti, ma si manifesta in maniera differente da un paziente all’altro: il filo comune è utilizzare comportamenti (auto) distruttivi per rispondere all’incapacità di gestire le emozioni. “La chiamano anche disregolazione emotiva – spiega la mamma di Giacomo -, chi ce l’ha vive tutto in maniera amplificata e prolungata, con reazioni spropositate che arrivano anche alla violenza contro sé stessi e gli altri”. Maria ci dice queste parole mentre ci indica la porta del bagno sfondata dalla testa di Giacomo: “Quando è arrabbiato sbatte il cranio contro i muri e le porte, nella sua camera abbiamo tolto il letto, perché lo distruggeva sempre”.
Un tempo Giacomo era diverso
Nonostante la malattia sia insorta in tenera età, Giacomo è riuscito a condurre una vita dignitosa almeno fino all’adolescenza. “I problemi grandi – ricorda la mamma – sono iniziati in terza media, la scuola l’ha cacciato, perché non riusciva a gestire i suoi comportamenti e così gli abbiamo fatto fare l’esame da privatista. Però ai tempi frequentava ancora gli scout e giovava a basket. A 15 anni è stato campione italiano, ma già allora gli avversari approfittavano del suo temperamento per provocarlo e farlo ammonire, poi ha mollato anche quella passione”.
Un adolescente in carcere
“A 17 anni è stato condannato dal tribunale dei minori per maltrattamenti in famiglia – continua Maria -. Noi non l’avevamo denunciato, perché sappiamo che nostro figlio non ci maltratta, è solo malato e ha bisogno di cure. Le segnalazioni erano arrivate dai vicini, perché Giacomo lancia le cose dalla finestra, e dai passanti per strada, perché le crisi di rabbia non avvengono solo in casa”. L’inserimento nelle comunità fallisce di continuo: “Si è fatto un anno di comunità, ma non una sola, tre! Perché tutte lo mandavano via, denunciando i suoi comportamenti aggressivi”. Comportamenti sintomo della malattia che lì avrebbe dovuto essere curata: “Alla fine il giudice ha deciso per il carcere”.
Perché il carcere e non la cura?
“Per tutto il tempo di permanenza in carcere Giacomo non ha avuto una vera e propria cura, se non gli ultimi mesi, in cui, grazie alla semi libertà, poteva andare alle sedute di psicoterapia. Era migliorato, ma finita la pena è riniziato tutto daccapo. Il problema – precisa la madre – è che chi soffre di questa malattia fatica a portare avanti ogni aspetto della vita, terapia compresa”. Ma, soprattutto in Italia, non esiste un protocollo ad hoc per curare il disturbo borderline di personalità, che abbraccia uno spettro molto ampio di sintomi, spesso in correlazione con altre patologie psichiche: “Di conseguenza le strutture nella maggior parte dei casi sono attrezzate per gestire un sintomo, ma non tutti gli altri”, spiega Maria. “Per quanto riguarda i servizi territoriali, come i centri psico sociali (cps), sono sovraccarichi, specialmente dopo la pandemia, e tendono a prendere in carico i casi più ‘semplici’, quelli che riescono a gestire con le risorse, scarse, che hanno a disposizione”, conclude la mamma di Giacomo.
Giacomo oggi, tra strada e carcere
Oggi Giacomo vive per strada. "Torna a casa qualche volta, giusto per farsi una doccia, ma poi o si arrabbia e rompe qualcosa o scappa via". Negli anni ha accumulato 17 procedimenti penali: "Quattro di questi – spiega Maria – andranno presto a termine e per lui si apriranno di nuovo le porte del carcere".
“Ci siamo anche noi”
“Ci siamo anche noi” è il nome della rete di genitori – per ora una cinquantina in tutta Italia, di cui 20 in Lombardia – fondata da Maria Gorlani per riunire tutti i familiari che vivono la sua stessa situazione. “Vorremmo diventare associazione e far capire che anche se i nostri figli sono più difficili da approcciare e da curare, esistono e hanno diritto di vivere”.