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Da Manfrinati a Impangatiello: perché il blackout non è mai alla base di un femminicidio

I termini blackout o raptus vengano spesso usati per giustificare le azioni violente, nel tentativo di alleggerire la posizione degli imputati. Perché è sbagliato, anche da un punto di vista clinico, utilizzarli per spiegare la genesi di un delitto.
A cura di Margherita Carlini
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Alessandro Impagnatiello
Alessandro Impagnatiello

La difesa di Alessandro Impagnatiello imputato per aver ucciso la sua compagna Giulia Tramontano, incinta al settimo mese del loro bambino, ha prodotto in udienza una consulenza di parte secondo la quale l'uomo avrebbe ucciso Giulia in preda ad un blackout dovuto al suo narcisismo. Marco Manfrinati, nel corso dell’udienza di convalida dell'arresto per l'omicidio dell'ex suocero e per il tentato omicidio della ex moglie, colpita al collo e al volto con un coltello a serramanico che l’uomo aveva portato con sé, avrebbe sostenuto di avere avuto un"blackout mentale" e di aver quindi, per questo, iniziato a colpire la moglie.

Sono solo gli ultimi due, tristemente noti, casi in cui sentiamo parlare di blackout (termine che sembra aver recentemente sostituito l'ormai diffuso "raptus") come meccanismo posto alla base di efferati omicidi. Un corto circuito mentale che avrebbe portato ad un acting criminale repentino ed improvviso. Ma è davvero possibile? Cerchiamo di comprendere perché è sbagliato, anche da un punto di vista clinico, utilizzare i termini raptus o blackout per spiegare la genesi di un delitto.

Va chiarito che da un punto di vista psico-patologico il raptus non esiste, non rappresenta una patologia psichiatrica. Può esserci un acuirsi estremo di alcune patologie pregresse, che non deve però confondersi con un improvviso cambiamento dei processi cognitivi del soggetto. Molto spesso si usano questi termini per andare a definire degli agiti aggressivi che sono stati compiuti da persone che possono anche avere dei disturbi di personalità, o dei funzionamenti complessi, pur preservando però la loro capacità di intendere e di volere. Una capacità che per altro, analizzando i singoli casi, emerge dai livelli di organizzazione e premeditazione che precedono gli omicidi o le aggressioni in genere.

Tornando ai due casi dai quali siamo partiti, l’attività di indagine e le risultanze autoptiche avrebbero ricostruito come Impagnatiello stesse avvelenando Giulia da molti mesi, prima di arrivare ad ucciderla. E come avrebbe dettagliatamente e lucidamente organizzato le fasi successive al delitto.

Manfrinati era stato denunciato dalla ex moglie per maltrattamenti e stalking (indici sognificativi di rischio di escalation degli agiti aggressivi) e nei suoi confronti era stato emesso un ordine di protezione. Starebbero emergendo inoltre messaggi minatori in cui lo stesso avrebbe preannunciato, con delle minacce, la volontà di aggredire la donna. L'uomo inoltre, sempre nel corso dell’interrogatorio di convalida, si sarebbe detto soddisfatto: "Giustizia è fatta. Ora sto bene", ha dichiarato al Gip.

Quindi se da un lato, anche come meccanismo di difesa, siamo portati a pensare che persone che arrivano a commettere delitti così efferati siano inevitabilmente dei "mostri" o dei "malati", perché per noi queste azioni sono del tutto inconcepibili; dall'altro i termini in questione vengano spesso utilizzati per giustificare le azioni violente, nel tentativo di alleggerire la posizione degli imputati, va specificato che nella maggior parte dei casi le persone che presentano patologie mentali non commettono crimini.

La patologia mentale viene riscontrata in una minima parte dei soggetti che compiono delitti (meno del 10%). Il malato mentale che compie un omicidio lo fa, inoltre, perché segue un suo sistema di pensiero che è del tutto o in gran parte scollegato dalla realtà. Situazione questa che quasi mai è riscontrabile soprattutto nei casi di femminicidio. Gli uomini che uccidono le loro partner sono, nella maggior parte dei casi, soggetti perfettamente funzionali nelle loro aree di vita (professionale, amicale, relazionale) e scelgono di utilizzare la violenza all’interno delle relazioni di intimità.

In questi casi infatti, l'omicidio o il tentato omicidio della partner o della ex partner arriva ad essere posto in essere come ultimo atto di una serie di azioni lesive (che possono manifestarsi attraverso forme di violenza fisica, psicologica, economica, sessuale o atti persecutori) reiterate nel tempo. Azioni che hanno come unico scopo quello di esercitare un controllo, sempre più serrato, nei confronti della vittima, tanto da arrivare ad ucciderla pur di non consentirle di sottrarsi a quel controllo. Una dinamica, come abbiamo visto il più delle volte lucida ed organizzata che mal si concilia con la perdita di controllo improvvisa che invece è insita nei termini di raptus o di blackout mentale.

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Sono Psicologa Clinica, Psicoterapeuta e Criminologa Forense. Esperta di Psicologia Giuridica, Investigativa e Criminale. Esperta in violenza di genere, valutazione del rischio di recidiva e di escalation dei comportamenti maltrattanti e persecutori e di strutturazione di piani di protezione. Formatrice a livello nazionale.
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