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Omicidio di Giulia Tramontano

Così il Luminol ha incastrato Impagnatiello: quello che non ha considerato nell’uccidere Giulia Tramontano

L’ultima udienza del processo ad Alessandro Impagnatiello evidenzia come il pensiero scientifico abbia fatto passi da gigante, mentre la bestia che è in noi è rimasta la stessa.
A cura di Piero Colaprico
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Puoi anche essere terrapiattista, ma vieni smentito dalle eclissi, dalle stagioni, dalle foto dallo spazio e dalle rotte dei marinai in base alle stelle fisse e ai pianeti in movimento. Puoi credere di poter uccidere e farla franca nascondendo le prove. Ti puoi convincere, specie se sei un criminale dilettante, che non sarà impossibile evitare la galera. Ma poi esiste la realtà. E quando nell'aula della Corte d'Assise di Milano viene pronunciata per la prima volta, alle 9.49, la parola Luminol, si capisce che Alessandro Impagnatiello, imputato di omicidio aggravato, che fissa le sbarre, è il perfetto esempio dell'assassino che era ignaro del lavoro abituale della polizia scientifica. E infatti, come già accaduto a Massimo Bossetti, o a Olindo Romano e Rosa Bazzi, o ad Alberto Stasi, l’ex barman di via Montenapoleone si trova dietro le sbarre: e senza via d’uscita.

La Scientifica – questo gli assassini improvvisati non  lo sanno – ha fatto grandi passi, anzi "sino a qualche anno fa era necessario il buio assoluto per usare il Luminol e non si riusciva a discriminare il sangue umano da altri falsi positivi, ad esempio il sangue di animali". Ma ormai, viene spiegato nell'aula del processo, esistono nuovi Luminol, migliorati, sofisticati, che funzionano anche in penombra, e che la varechina non può più imbrogliare. Quello che vedono è sangue umano, i falsi positivi non infastidiscono la ricerca dei tecnici. E poi il sangue lascia sempre tracce.

Tracce "passive", da sgocciolamento, e anche tracce "attive": da proiezione (una ferita da coltello, o una pallottola); o da brandeggio (muovendo il braccio tra una coltellata e l'altra); o da contatto (l'assassino si sporca con il sangue della vittima). Gli esperti dell'anticrimine le sanno leggere, queste macchie che diventano blu: ad esempio, Impagnatiello ha pulito molto bene il pavimento dove è caduta, trafitta alle spalle, Giulia Tramontano, "ma sul battiscopa c’è il sangue", portato dallo stesso straccio. E il sangue, come un fantasma, insegue Impagnatiello dovunque: il sangue della sua fidanzata, tradita e uccisa nonostante avesse in grembo un bimbo di sette mesi, colora molto intensamente con la luminescenza blu il pianale dell'auto; spunta sulle piastrelle "porose"; eccolo in cantina e nel box. I tecnici lo seguono, lo vedono, lo indicano ai giudici.

E, oltre al sangue che non sparisce, che cosa fa Impagnatiello nella sua febbrile cancellazione delle tracce? Accumula flaconi di ammoniaca e di varechina, lava e rilava, strizza e cancella, un gran lavoro, crede lui. Ma che fa di tutti i flaconi? Li lascia sul balcone ("Un  numero elevato di flaconi", dice il carabiniere) e sui flaconi, ecco, ancora sangue. E nel sacco nero che li contiene si trovano pure capelli. Finita? Macché: pure le sue scarpe, dopo la spruzzata del Luminol, hanno la suola blu.

Siamo dentro il Palazzo di giustizia, ma possiamo vedere e sentire i passi dell’assassino verso l'abisso: ci sono le sue impronte digitali che da latenti diventano evidenti. E si accumulano quelle prove che non raramente gli "innocentisti a priori" rifiutano. Forse perché è psicologicamente difficile accettare che il pensiero scientifico abbia fatto passi da gigante, mentre la bestia che è in noi, la violenza che ci ruggisce dentro, è rimasta la stessa. E non è più libera, come quando si poteva dire, ripetere, giurare: "Non sono stato io". Non basta più. Oggi, se sei Bossetti, puoi dire che non c'entri, ma come mai il tuo Dna si trova sulla povera Yara Gambirasio? Se sei Olindo, e hai confessato, puoi anche ritrattare, ma come mai il Dna della vicina che hai sprangato e che tua moglie Rosa ha inseguito e accoltellato si trova sulla tua utilitaria? Che ci fa il Dna della povera Chiara Poggi sui pedali della bicicletta di Stasi?

Siamo a volte in uno strano mondo, nel quale gli investigatori devono spiegare tutto, ma tutto tutto, e gli assassini possono proclamarsi vittime dell’ingiustizia, ma senza offrire niente, ma niente niente, che smentisca le prove scientifiche. Alla fine, quando le parole degli avvocati si esauriscono, quando non fa più gli ascolti utili all'intrattenimento dei programmi in tv, tutti vanno a casa, e magari si dimenticano, in attesa di altre tragedie: meno gli assassini, che restano in carcere. A meditare anche sulle mille prove che hanno cercato di cancellare e non ci sono riusciti. Non così scientificamente come credevano, speravano, di poter fare. La Scientifica corre, l'assassino vacilla.

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Piero Colaprico. Liceo al collegio Morosini, laurea in legge a Milano, assunto nel 1985 da Repubblica, nominato nell’89 inviato speciale, nel 2006 responsabile del settore nera e giudiziaria, nel 2017 capo della redazione. Si è dimesso nel ’21, mantenendo varie collaborazioni giornalistiche. Scrittore di gialli e noir, ne ha scritti 15, alcuni tradotti in inglese, francese, romeno. Da un suo saggio, “Manager calibro 9”, è stato tratto il film “Lo spietato”. Scrive anche per il teatro, attualmente è direttore artistico del teatro Gerolamo, storica sala milanese.
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