Non è una diceria o un sospetto, come quando – ciclicamente – si dice che le forze dell'ordine non abbiano abbastanza benzina per far uscire le auto. Questa volta a confermare qualcosa di simile, e forse perfino più grave, è stato il comandate della stazione di Senago, dove è stata uccisa Giulia Tramontano, durante la seconda udienza del processo ad Alessandro Impagnatiello. Il maresciallo ha infatti raccontato, sotto giuramento, che, non avendo auto di servizio a disposizione, hanno chiesto proprio ad Impagnatiello di accompagnarli con la sua auto a perquisire la casa. E, verosimilmente, anche di riportarli poi in caserma.
Tanto è vero, aggiunge il sottufficiale durante la sua ricostruzione dei fatti in aula, che a bordo dell'auto "avevo sentito un forte odore di benzina provenire dal bagagliaio: lui si era giustificato dicendo che si era un po' rovesciata una bottiglia di benzina". Quella benzina, in realtà, poi si scoprirà che Impagnatiello l'aveva usata per tentate di incendiare il corpo di Giulia Tramontano. Alla fine quel passaggio si è quindi rivelato anche utile all'indagine, anche se il controllo della vettura poteva essere effettuato anche in altri modi.
Il problema, però, è che gli investigatori per poter effettuare un accertamento indispensabile al ritrovamento della ragazza, scomparsa mentre era incinta, hanno dovuto chiedere un passaggio a un possibile sospettato. E questo, forse ingenuamente, ha accettato di darglielo. Altrimenti non sarebbe neanche stato possibile fare quella perquisizione.
E di certo non per volere dei carabinieri di Senago, che tuttavia arrivati sul posto non hanno controllato il garage in cui effettivamente era nascosto il corpo della ragazza, ma per colpa di chi non gli fornisce i mezzi e le strumentazioni adeguate per fare il loro lavoro. Costringendoli, peraltro, a mettere a rischio la propria vita. Impagnatiello, infatti, era effettivamente l'assassino ed effettivamente teneva il corpo nascosto nella pertinenze dell'abitazione. Se, accompagnando gli investigatori a effettuare la perquisizione nella sua casa, temendo di essere scoperto, avesse tentato un gesto inconsulto? Avesse, ad esempio, tentato di buttarsi con l'auto in un burrone o di schiantarsi contro un muro? Avrebbe trascinato con sé anche i militari. È vero che, in quel momento, Impagnatiello non era ancora indagato. Ma è anche vero che sospetti su di lui, proprio per le modalità della scomparsa c'erano e dovevano esserci già dal primo momento. E comunque era una fase dell'indagine in cui, come si dice in gergo, "non si può tralasciare nessuna pista".
La stessa problematica si era riscontrata in provincia di Venezia con il caso di Giulia Cecchettin, allorquando qualcuno aveva chiamato il 112 per avvisare di aver visto e sentito una coppia litigare. I carabinieri non poterono mandare nessuna pattuglia a controllare, perché "c'erano altri interventi in atto". La coppia che litigava erano Giulia Cecchettin e il suo assassino, Filippo Turetta, poco prima dell'omicidio. Probabilmente in quel caso ci fu una sottovalutazione della situazione, ma il dato di partenza resta che i militari non avevano abbastanza mezzi e uomini a disposizione, altrimenti avrebbero potuto facilmente mandare un'auto a controllare quella segnalazione.
Il problema, è bene ribadirlo, non è quindi dell'Arma dei Carabinieri e dei suoi uomini che, al contrario, devono sopperire alle carenze che la politica gli impone e non da oggi. Come possiamo, allora, pensare di combattere il crimine, compresa la violenza sulle donne, se questi sono gli strumenti che hanno a disposizione le nostre forze dell'ordine? Prima ancora del codice rosso, dell'inasprimento delle pene, uno Stato che non è in grado di dotare i suoi dipendenti di tutto ciò di cui hanno bisogno, chiedendogli anche di fatto di mettere a rischio la loro vita, come può pensare di andare avanti?