Caso Alberto Genovese, parla il suo bodyguard: “Ognuno fa quel che vuole in casa propria”
È il supertestimone, l’uomo che era davanti alla camera da letto di Alberto Genovese e che, forse, sa tutta la verità su quella sera che è costata all’imprenditore digitale l’arresto per violenza sessuale su una 18enne. Era il 10 ottobre scorso, da allora anche la vita di Simone Bonino è cambiata. Per certi versi in meglio. Tante le ospitate in televisione, i brand che gli hanno chiesto di fare da testimonial, i messaggi di donne che tutto a un tratto si sono accorte di quanto è affascinante e prestante. “Sono diventato noto, non famoso, c’è una bella differenza – racconta a Fanpage.it – Le persone credono che ora sia un influencer perché mi vedono in televisione, ma io sono 20 anni che lavoro. Mi chiedono un’intervista, io vado, tenendo sempre a mente che c’è un’indagine in corso”.
Minacce e offese sui social
Per le strade di Milano c’è un adesivo che ogni tanto spunta. Dice “la droga dà, la droga toglie”. Sembra la sintesi della storia di Genovese e il concetto si può applicare anche all’esposizione mediatica di Bonino. Tra i messaggi che intasano la sua posta di Instagram ci sono anche minacce e offese di chi lo ha trasformato nel capro espiatorio di una vicenda con tante ombre. Sono in molti a non capire come abbia fatto a non sentire le urla della vittima, non glielo perdonano. “Non ho sentito proprio nulla, la musica era troppo alta – risponde -. Anche i vicini di casa si sono lamentati, tanto è vero che quella sera hanno chiamato la polizia. Se avessi sentito urla o avessi avuto la sensazione che c’era un pericolo sarei sicuramente intervenuto. Come è accaduto in altre occasioni in altri luoghi”.
Bonino, è bene sottolinearlo, non è in alcun modo coinvolto nell’inchiesta se non come persona informata sui fatti. “Il mio compito era stare davanti alla porta e stare molto attento che non entrasse nessuno. Mi era stato detto che c’erano oggetti di valore di Genovese”. A questo punto dell’intervista una domanda nasce spontanea: non era più semplice chiudere la porta a chiave? “Non è casa mia. Ognuno fa come vuole in casa propria. Io eseguo quello che mi viene richiesto. Andavo lì per fare un determinato servizio, seguivo gli ordini. Quando poi mi è stato chiesto di andare via perché non serviva più la mia presenza ho smontato e sono andato. È il cliente che decide”.
L'uomo che dava gli ordini
Ricapitolando, a un certo punto della serata qualcuno dice a Bonino che può andare via e lui, che ha ricevuto ordine tassativo di non allontanarsi da quella porta, se ne va. Secondo la ricostruzione sarebbero state circa le 2. Considerando che nessuno era riuscito a smuoverlo fino a quel momento, nemmeno l’amica della vittima che non riusciva a mettersi in contatto con lei e che era stata allontanata dal bodyguard, deve essere stato Genovese a parlargli. E invece no, Bonino dice che non prendeva ordini dal padrone di casa, lasciando intendere la presenza di una terza persona che aveva il ruolo di intermediario. È la stessa persona che portava le ragazze? Bonino si trincera dietro un “non posso dirlo a voi, l’ho riferito alla Squadra mobile”.
Il bodyguard, assistito dall’avvocato Roberto Rovere Querini, mantiene la sua linea comunicativa stando sempre attento a non andare oltre per timore di ripercussioni giudiziarie. Conferma che in quella casa era stato altre volte e che gli avevano anche fornito la divisa di Terrazza Sentimento, una polo nera con la parola "Sentimento" ricamata in rosso. A riguardo dei piatti pieni di droga non si esprime. “Non è un locale pubblico, è una casa privata, le regole sono diverse. Quello che succede in un appartamento privato resta privato per me”. Spesso usa la formula “non ricordo”. Ma c’è tempo per tutto e la sua amnesia dovrebbe risolversi tra qualche mese, a indagini chiuse. “Tanto questo è l’inizio, appena l’indagine è chiusa hai voglia a raccontare. Uscirà anche il mio libro esclusivo. Intanto continuo a lavorare, c'è già qualche cliente che mi ha chiamato per delle feste".