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Covid 19

Cartabellotta (Gimbe): “In Lombardia troppi cambi di fascia, si continua a inseguire il virus”

In Lombardia, solo negli ultimi 4 mesi, ci sono stati ben 15 cambi di colore che portano ora ancora alla zona rossa. Lo sottolinea Nino Cartabellotta, presidente e direttore scientifico della Fondazione GIMBE, intervistato da Fanpage.it: “Abbiamo continuato a inseguire il virus: i numeri che contiamo oggi sono i contagi di tre settimane fa, lavoriamo sempre con questa visione della pandemia dallo specchietto retrovisore”.
A cura di Giulio Cavalli
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Nino Cartabellotta è presidente e direttore scientifico della Fondazione GIMBE, che ha lo scopo di favorire la diffusione e l'applicazione delle migliori evidenze scientifiche con attività indipendenti di ricerca. Nei giorni scorsi sui suoi social ha sottolineato come in Lombardia, solo negli ultimi 4 mesi, ci siano stati ben 15 cambi di colore che portano ora ancora alla zona rossa.

Cartabellotta, a proposito dei cambi di colore lei ha scritto “apriamo un dibattito serio”: continuiamo a inseguire male il virus?

Noi di fatto durante la seconda ondata siamo arrivati molto in ritardo nell’attuare misure di contenimento. Fino a fine settembre avevamo circa 50/60mila casi e nel giro di un mese siamo arrivati a 800mila casi. In quel periodo si sono rincorsi 4 Dpcm di cui solo l’ultimo, quello del 3 novembre, ha inserito il sistema dei colori delle regioni. Il punto da cui è partire è che noi la seconda ondata non siamo stati capaci di contenerla per una serie di ragioni anche strutturali e perché gli interventi sono arrivati molto tardi. Noi in questi mesi abbiamo elaborato un indice molto banale, gli attualmente positivi come sappiamo sono la somma dei pazienti in isolamento domiciliare più quelli ricoverati con sintomi più quelli ricoverati in terapia intensiva, qualunque sia il loro numero c’è una formula fissa che dice che ogni 100 positivi 5 vanno ricoverati in terapia ordinaria e lo 0,5 va in terapia intensiva: più si allarga il bacino degli attualmente positivi più si riempiono gli ospedali e le terapie intensive. Questa è la base della dinamica. Dopo l’introduzione dei colori delle regioni noi abbiamo iniziato una lenta e graduale discesa. Durante i mesi delle regioni a colori c’è stato un grande problema: la permanenza di una regione in un colore è stata sempre troppo breve. Il caso della Lombardia è emblematico. Siamo arrivati a 382mila positivi. Non è che i colori non funzionino, è stato errato il sistema di ingresso e di uscita. La permanenza di una regione in quel colore è troppo breve e quindi dopo le riaperture poiché il virus circola molto dopo tre settimane si è punto a capo. Quindi il risultato è che comunque siamo andati avanti con uno stop and go che ha messo a dura prova anche lo stato psicologico dei cittadini, con una sorta di indecisione collettiva, con effetti non misurabili che vedremo più avanti. E intanto si sono abbassate le curve ma ci siamo tenuti su un totale di casi troppo alto e l’arrivo di nuove varianti ha fatto ripartire tutte le curve. Abbiamo continuato a inseguire il virus: i numeri che contiamo oggi sono i contagi di tre settimane fa, lavoriamo sempre con questa visione della pandemia dallo specchietto retrovisore.

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In Lombardia non molti giorni fa il presidente Attilio Fontana twittava con una certa sicumera complimentandosi (probabilmente con se stesso) che la Regione non fosse diventata rossa. Quella comunicazione in pochi giorni sembra ormai essere già invecchiata malissimo. Ora è arrivata la notizia della zona rossa, tra l’altro di venerdì con la gente che si gode l’ultimo week end come riflesso pavloniano. Quanto incide questo modo di comunicare?

Questo spostamento al lunedì da un lato è stato fatto con le migliori intenzioni perché l’obiettivo era quello di dare alla gente il tempo per organizzarsi e mettere in fila le cose, se poi questo si è trasferito in un “liberi tutti” prima della chiusura ha di fatto avuto un effetto boomerang. Le intenzioni della politica sono più che buone ma se poi questo comporta una sfrenata corsa nelle ultime 48 ore è evidente che questo diventa una leva di accelerazione del contagio.

La campagna vaccinale sembra faticare a trovare un cambio di passo, in Lombardia ha problemi enormi. Bertolaso garantisce che per giugno tutti siano vaccinati, anche il commissario Figliuolo dice la stessa cosa in un’intervista al Corriere della Sera. È credibile?

A me piace partire sempre dai numeri. Se noi guardiamo la prima versione del piano vaccinale, quello del governo Conte, nel primo trimestre del 2021 erano previste oltre 28 milioni di dosi. Partivamo da un’ipotesi di fornitura assolutamente irrealistica sia per la produzione dell’industria dei vaccini e sia perché si teneva conto di vaccini che nemmeno avevano terminato la fase di test. Nel giro delle settimane e dei mesi questo numero si è ridotto a 15 milioni e 700mila e abbiamo visto quasi dimezzata la nostra aspettativa nel primo trimestre. Ora ci dicono che sui contratti con i produttori (che noi non abbiamo mai visto) le penali scadrebbero alla fine del primo trimestre, quindi fra pochi giorni. Se noi andiamo a guardare ci hanno consegnato poco meno della metà delle dosi promesse, più o meno 7 milioni e mezzo. Se le aziende dovessero rispettare i contratti noi nei prossimi giorni dovremmo essere inondati di vaccini. Io sono ragionevolmente certo che non sarà così. Questo complessivamente porta a un portafoglio vaccini assolutamente inferiore alle previsioni e soprattutto spostato in avanti. Tutte le previsioni sono basate su stime di consegna. Ipotizzare di vaccinare tutti entro giugno significa credere che tutto si svolga senza nessun intoppo (come accaduto con AstraZeneca), senza nessun problema di produzione e con le consegne precisamente rispettate. Sono tutte previsioni basate sul miglior scenario possibile ma i numeri purtroppo al momento dicono altro. Le regioni tutto sommato dal punto di vista operativo non sono andate così male: inizialmente con gli operatori sanitari con Pfizer e Moderna sono andate piuttosto bene, poi c’è stata una frenata con AstraZeneca sulla disposizione dei luoghi e dei sistemi di vaccinazione, adesso con una certa cattiva informazione abbiamo ritardi ma tutto sommato se guardiamo le dosi somministrate rispetto alle consegne siamo a un livello piuttosto elevato. Rimane purtroppo la “sindrome del week end” che già osservavamo sui tamponi: meno il sabato e molto meno la domenica. Questo è un aspetto che dovrebbe prevedere un rinforzo. Questa settimana ad esempio abbiamo raggiunto le 180/200mila somministrazioni, il sabato siamo scesi a 150/160mila e la domenica 100mila.

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A proposito della cosiddetta tenuta psicologica: lei non crede che ci sia una sottovalutazione sul tema della fiducia che comincia a mancare?

Ci stiamo gradualmente rendendo conto che la pandemia non si spegnerà con un interruttore che si chiama vaccino. Il mondo sanitario ad esempio è sotto stress da più di un anno, se guardiamo i numeri vedo che il livello ospedaliero da metà ottobre vede almeno 10mila pazienti in ospedale e almeno 1000 pazienti in terapia intensiva, con picchi di 35mila e 3.500. Questa gente non ha mai un attimo di respiro: il malato Covid per il mondo ospedaliero rappresenta un chiodo fisso con cui bisogna confrontarsi tutti i giorni e ovviamente subentra lo scoramento, il rallentamento della tenuta psicofisica, la stanchezza, la depressione: questo aspetto è molto rischioso perché tutti gli studi dimostrano che le performance del personale sanitario poi crollano tutte insieme. Così come nel tracciamento in autunno che è saltato tutto di colpo. I numeri che prima erano fisiologici ora sono patologici. Se crolla la sanità in ospedale come la gestiamo?

E la stessa situazione si può declinare sui cittadini…

Proprio così. Il ministro Speranza ha parlato di ultimo miglio ma non sappiamo se abbiamo percorso alcune decine di metri o alcune decine di miglia: ci stiamo rendendo conto che la luce in fondo al tunnel c’è ma questo tunnel si allunga di settimana in settimana. Con questa risalita delle curve la domanda generalizzata è: riusciremo a frenarla? Siamo passati dall’obiettivo “eliminazione” all’obiettivo “mitigazione” ma è una strategia fallimentare per la sanità, per l’economia e per i risvolti sociali. Noi misuriamo con facilità gli esisti sanitari e economici ma non riusciamo a misurare l’impatto sociale. Il Recovery Plan sta mettendo soldi importanti sull’assistenza domiciliare ma se la pandemia continua bisognerà spostare una quota importante delle risorse in servizi di neuropsicologia per l’infanzia. Il nostro dopo non è quello di prima della pandemia ma è quello provato da una pandemia storica.

Secondo lei la narrazione politica è stata all’altezza?

No perché ha immaginato che ci potessero essere soluzioni rapide e durature con misure restrittive. Dal punto di vista pratico non si è capito che se bisogna evitare assembramenti ci sono attività che devono sopportare un maggiore sacrificio, tutti quei luoghi dove si abbassa la mascherina. La politica non è stata in grado di costruire una narrativa coerente perché ha sempre considerato il dato di oggi senza tenere conto delle tre settimane che bisogna aspettare per avere contezza dei numeri e poi perché ha immaginato che il virus potesse dipendere dalle capacità di un servizio sanitario che negli ultimi 10 anni è stato fatto a pezzi dalla politica di qualsiasi colore. Siamo arrivati a gestire la pandemia con un Servizio Sanitario Nazionale che ha perso 37 miliardi in 10 anni. È mancata la visione di medio e lungo periodo.

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