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Bloccato ancora una volta il risarcimento per ingiusta detenzione a Stefano Binda: nuovo ricorso in Cassazione

Il risarcimento per ingiusta detenzione di 212mila euro a Stefano Binda è stato di nuovo bloccato. Questa volta l’Avvocatura di Stato ha impugnato la sentenza della Corte d’Appello e presentato ricorso in Cassazione. Il 57enne aveva trascorso oltre 3 anni e mezzo in carcere da innocente.
A cura di Enrico Spaccini
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Stefano Binda
Stefano Binda

L'Avvocatura di Stato ha impugnato la sentenza della Corte d'Appello di Milano in merito al risarcimento per ingiusta detenzione a beneficio di Stefano Binda, rimasto in carcere per 3 anni, 6 mesi e 50 giorni da innocente. Il 57enne di Brebbia (in provincia di Varese) era stato arrestato nel 2016 perché accusato di aver ucciso Lidia Macchi nel 1987, poi definitivamente assolto "per non aver commesso il fatto". La Corte d'Appello gli ha riconosciuto una somma pari a 212mila euro, ma l'Avvocatura di Stato ha presentato ricorso in Cassazione.

L'assassinio di Macchi e l'ingiusta detenzione di Binda

Lidia Macchi era scomparsa il 5 gennaio del 1987 dopo aver fatto visita a un'amica ricoverata in ospedale a Cittiglio. La 21enne era salita alla guida della sua Fiat Panda e venne ritrovata due giorni più tardi senza vita in un boschetti vicino a Varese. La ragazza era stata accoltellata 29 volte.

Stefano Binda è stato arrestato nel 2016. Ex studente di Filosofia, era amico stretto della vittima e secondo gli investigatori era stato lui a ucciderla. Nel 2018 è stato condannato in primo grado all'ergastolo, ma dopo 3 anni, 6 mesi e 50 giorni è stato scarcerato e prosciolto con formula piena in Cassazione "per non aver commesso il fatto". A scagionare Binda era stata la prova del Dna effettuata su alcuni reperti trovati sul corpo di Macchi che non appartenevano a lui. L'assassino della 21enne non è mai stato trovato.

La richiesta di risarcimento e il ricorso in Cassazione

Tramite i suoi avvocati, Binda ha chiesto di essere risarcito per ingiusta detenzione. In un primo momento gli era stata riconosciuta una somma pari a 303mila euro, ma lo scorso 23 settembre la Corte d'Appello l'ha ridimensionata a 212mila euro. Secondo i giudici, il 57enne avrebbe avuto una "colpa lieve" nella sua detenzione poiché "con i suoi silenzi" avrebbe "contribuito all'errore sulla sua carcerazione". Per la Procura, "la condotta mendace" di Binda negli interrogatori era stata una "condotta fortemente equivoca".

Ora, però, l'Avvocatura di Stato ha deciso di impugnare la sentenza di secondo grado bloccando il risarcimento e presentando ricorso in Cassazione. Nelle prossime ore gli avvocati difensori di Binda depositeranno un proprio ricorso con cui intendono contrastare il punto relativo alla "lieve colpa" che per loro è totalmente inesistente.

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