video suggerito
video suggerito

Arriva con un barcone alla deriva, oggi lavora in banca: “In Libia ero schiavo, in Italia il mio lieto fine”

“Io sono stato sempre in silenzio sul barcone in mare aperto. Pregavo nella mia testa. C’é chi pregava ad alta voce, chi piangeva.  C’erano donne e bambini. Potevamo solo sperare”: Mario (nome di fantasia) racconta il suo viaggio da migrante dalla Nigeria all’Italia.
A cura di Giorgia Venturini
111 CONDIVISIONI
Immagine

"Sono scappato dalla Nigeria dopo le continue minacce di morte. Ho attraversato il deserto per sei giorni, sono stato schiavo in Libia due anni, ho attraversato il Mediterraneo su un gommone con altri 150 migranti. Sono arrivato in Italia e qui ho avuto il mio lieto fine". A Fanpage.it Mario (nome di fantasia perché nel suo Paese rischia la vita) racconta la sua storia. Racconta il viaggio da migrante durato anni prima di raggiungere l'Italia: più volte è scappato, più volte ha pensato di morire.

Chi l'ha liberato dalla schiavitù in Libia lo ha caricato su un barcone sperando di dargli una futuro migliore in Italia. Una volta in acque internazionali però il barcone ha iniziato a imbarcare acqua: "Metà delle persone che erano a bordo pregava, l'altra metà piangeva. Io stavo in silenzio. Non parlavo con nessuno, tenevo la testa bassa. Pregavo e speravo".

Lo ha salvato una nave di un'organizzazione umanitaria: è sbarcato ad Augusta in Sicilia e poi è arrivato in Valtellina. Qui ha incontrato il parroco del paese, Mario lo chiama Babbo: "Lui per me è stato il mio angelo custode". Mario ha iniziato da capo gli studi in Italia, si è diplomato in ragioneria. Oggi lavora in banca.

Perché sei scappato dalla Nigeria?

Era il 2013. I miei genitori sono stati assassinati e i killer hanno iniziato a minacciare di morte anche me, il loro unico figlio. Non ho potuto affidarmi all'aiuto delle forze dell'ordine perché sono corrotte. Per salvarmi la vita sono dovuto così fuggire via senza però sapere cosa mi aspettava. Sapevo che avevo l'80 per cento delle probabilità di morire e il 20 per cento di restare vivo. Prima di lasciare la Nigeria ho chiamata un mio amico in Libia, mi aveva detto che viveva bene e che mi avrebbe ospitato lui. Dovevo però raggiungere la Libia.

Qual è stato il momento più difficile del viaggio? 

Per sei giorni ho percorso il deserto in Niger. Eravamo 30 persone strette come sardine su un picup. Viaggiavamo senza sosta a grande velocità perché dovevamo evitare che qualcuno ci fermasse. Facevamo sosta solo per cambiare le ruote.

Se qualcuno vi avesse trovato quali sarebbero stati i rischi? 

Ci avrebbero potuto fare prigionieri o ci avrebbero ucciso anche sul posto. Dovevamo quindi viaggiare veloci.

Poi la Libia. Qui cosa è successo? 

Appena sono arrivato in Libia ho chiamato questo mio amico che mi ha ospitato a casa sua. Ma dopo un mese chiuso in casa, gli ho chiesto di trovarmi un lavoro. Non volevo stare a fare nulla. Un giorno quindi mi ha presentato un uomo: questo mio amico – che si è rivelato poi non esserlo – mi ha detto che sarei andato a vivere con questo signore e che avrei lavorato con lui e che avrei avuto uno stipendio. Non ero convinto, ma non puoi dire di no.

E qui è iniziata la tua schiavitù…

Sì. Dormivo in una camera con altri uomini la notte e durante il giorno raccoglievamo pomodori in un campo di proprietà di questo signore, rivelatosi poi un padrone. Dopo due mesi di lavoro gli ho chiesto lo stipendio. Lui mi ha riso in faccia: mi aveva comprato dal mio "amico", non mi avrebbe pagato. Aveva già pagato lui, mi aveva comprato. Ero un suo schiavo, mi ha detto che ero di sua proprietà. Lo sono stato per due anni.

Hai mai tentato di fuggire? 

Sì, certo. Ma ci chiudeva in camera dopo il lavoro. Un giorno però mi sono calato dal secondo piano aggrappato alla tubatura dell'acqua all'esterno della casa. Il tubo però non era bene agganciato al muro e ha ceduto. Cadendo mi sono rotto una spalla. Quando la "guardia" del palazzo mi ha trovato mi ha trascinato dentro in una stanza e mi hanno picchiato.

Come sei riuscito a scappare da quella situazione? 

Il mio padrone un giorno mi ha "prestato" a un signore del posto che cercava qualcuno che gli pulisse un locale dopo aver tenuto una festa. Pulivo con un fortissimo dolore alla spalla, non riuscivo ad andare avanti. Il proprietario della casa si è accorto: gli ho raccontato cosa mi era successo. Mi ha liberato lui dalla schiavitù.

Come? 

Ha detto al mio padrone che mentre quel giorno ero impegnato nelle pulizie ero scappato via e non mi aveva più visto. L'uomo poi mi ha promesso che avrebbe fatto qualcosa per me ma che avrei dovuto attendere che finisse il Ramadan. Non ho potuto sistemarmi la spalla perché non potevo andare in ospedale.

Cosa è successo una volta finito il Ramadan? 

Era una notte di luglio del 2015. Mi ha svegliato improvvisamente e mi ha portato via. Ero spaventato, ho pensato che quella sera sarei morto. Non potevo più andare indietro e non sapevo cosa mi aspettava in futuro. Quella notte in macchina siamo arrivati in spiaggia. Mi ha detto di aspettare dentro l'auto e che lui sarebbe tornato dopo pochi minuti. Una volta da me mi ha fatto scendere. C'era un gommone pronto a partire, lui aveva già parlato con gli organizzatori del viaggio. Sarei andato in Europa, ha sperato che una volta in Italia avrei trovato fortuna. Così sono salito sul gommone, eravamo 150 migranti.

Chi guidava il gommone? 

Non so se chi guidava il gommone era uno scafista. So solo che oltre all'uomo che guidava il gommone ce ne era un altro che guidava una motovedetta che ci seguiva. Una volta arrivati in acque internazionali, l'uomo alla guida del gommone è salito sulla motovedetta e sono tornati sulle coste della Libia.

Siete rimasti in mezzo al mare…

E senza sapere in che direzione andare. Intanto il gommone stava iniziando a imbarcare acqua.

Cosa vi siete detti voi migranti in quei momenti? 

Nulla. Io sono stato sempre in silenzio. Pregavo nella mia testa. C'é chi pregava ad alta voce, chi piangeva.  C'erano donne e bambini. Potevamo solo sperare. Era un momento di alta tensione. Intanto imbarcavamo acqua. Tenevamo le dita incrociate.

Chi vi ha salvato? 

Il primo a vederci è stata una nave che ha chiamato i soccorsi. Siamo saliti poi su una nave di un'organizzazione internazionale. Ci ha portato ad Augusta, in Sicilia.

Finalmente in Italia…

Sì, finalmente. In Sicilia sono stato due settimane in un campo di prima accoglienza. Poi insieme ad altre 60 persone ci hanno trasferito subito in Valtellina.

Come ti sei trovato a Bormio? 

All'inizio è stato difficile perché non conoscevo la lingua. Cercavamo però di renderci utili, eravamo volontari del Comune. Pulivamo le vie del paese.

Poi qui un incontro ti ha cambiato la vita…

Qui ho conosciuto il parroco del paese. Oggi lo chiamo Babbo, per me è mio padre, è il mio angelo custode.

Come vi siete conosciuti? 

Io sono credente e spesso andavo in chiesa a pregare. Lui si avvicinava a me ma non parlava inglese e io non parlavo italiano. Così abbiamo deciso di scriverci email aiutandoci con google traduttore. Quando pochi mesi dopo il Don mi ha detto che sarebbe stato trasferito in un paese nel Comasco, mi ha chiesto se volevo andare con lui. Non ci ho pensato due volte. L'ho seguito subito. Una volta a Como ho frequentato una scuola di italiano: ho iniziato da capo le scuole e mi sono diplomato in ragioneria. Lo stesso diploma che avevo preso anni prima in Nigeria.

Dove vivi ora e cosa fai? 

Oggi lavoro in banca. Il mio Babbo è ritornato in Valtellina. Appena posso torno da lui, ci sentiamo al telefono tutti i giorni. La mia è stata una storia a lieto fine.

111 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views