A Edolo i profughi afgani con gli ucraini: “Sappiamo com’è quando c’è la guerra, ci dispiace per loro”
L’edificio è sperso nel verde. Edolo, 720 metri di altitudine, poco sotto le rinomate piste da sci dell’alta Valle Camonica, sulle montagne bresciane. Qui, dalla fine dell’estate 2021, hanno trovato rifugio centinaia di profughi, prima afghani e ora anche ucraini. Lo stabile è noto come ex convitto Bim, ma da tempo è in mano alla cooperativa Rosa Camuna e nel pieno dell’emergenza Covid è stato anche centro vaccinale.
I numeri dell’emergenza strutturale
“In questo momento ospitiamo 68 persone – spiega Rino Bianchi a Fanpage.it, che insieme al fratello Tiziano gestisce la cooperativa – 26 sono afghani e fanno parte della tornata arrivata lo scorso 14 settembre, 38 sono invece gli ucraini, arrivati due settimane fa”. Il complesso rientra nei centri di accoglienza straordinaria (Cas): secondo i dati del ministero dell’Interno, a oggi, delle 4.890 persone arrivate in Italia col ponte aereo da Kabul, 3.671 si trovano nelle strutture di accoglienza italiane. Soltanto una su cinque, però, è stata assegnata a una struttura che si occupa di costruire e applicare progetti di integrazione nella società. Cioè le strutture della rete Sai (Sistema Accoglienza Integrazione). Le altre 3.003 sono state sistemate nei Cas. E il copione rischia di essere lo stesso per chi sta scappando dal conflitto in corso nell’est dell’Europa, seppure in questo caso giochi un ruolo fondamentale la presenza di una delle più nutrite comunità ucraine del vecchio continente: 260mila persone registrate nel 2021, a cui si sono aggiunti gli 86mila (per ora) sfollati dalla guerra, che in massima parte hanno trovato ospitalità da amici e parenti.
In Italia i centri di accoglienza contano nel complesso 131mila persone, ma solo 30mila sono state inserite nella rete Sai, il resto, se non ha alloggi di fortuna, risiede dei Cas, che molti ritengono “parcheggi”, perché chi li gestisce è tenuto a garantire soltanto i servizi minimi di ospitalità: un letto, tre pasti al giorno, un bagno pulito, una piccolissima quantità di denaro per acquisti personali.
A Kabul hanno visto le persone morire, qui aspettano di vivere
“Quando, sei mesi fa, abbiamo raggiunto l’aeroporto di Kabul, piangevamo tutti – ricorda Khalil Rahjoo -, perché ci eravamo messi in salvo”. Khalil ha lavorato per 9 anni come collaboratore della Nato, faceva l’interprete per americani e italiani. “All’aeroporto ho camminato sopra tanti bambini e tante donne morti, non avrei mai potuto restare in Afghanistan: lì di notte i talebani entrano nelle case di chi ha collaborato con le Nazioni Unite e uccidono tutti. Mio padre e mio fratello sono rimasti, spero possano raggiungerci presto”. Nel frattempo lui è riuscito a raggiungere l’Italia insieme a sua moglie e ai suoi otto bambini: “Il mio futuro e quello dei miei figli lo vedo qui, per fortuna stanno imparando l’italiano e vanno a scuola, in Afghanistan non tornerò, perché non c’è alcun rispetto per i diritti umani”.
Anche Shakufa Bahrami è arrivata da sei mesi in Italia: “Mio marito lavorava per la Nato, avevamo una bella casa, non ci mancava niente, ma abbiamo dovuto lasciare tutto”. E anche loro, come Khalil e la sua famiglia e come migliaia di altre persone, da agosto 2021 vivono in albergo: “Penso che potrò rendermi conto di come sarà la mia nuova normalità solo quando ci daranno una casa”.
La casa per ora non c'è
Casa che era stata loro promessa nel giro di poco, ma poi la situazione si è complicata: “Adesso dicono che è perché c’è l’emergenza per gli ucraini, a me spiace per loro – dice Khalil -, però secondo me le istituzioni italiane si sono dimenticate di noi afghani. Non possiamo certo lamentarci per essere qua con tutto pronto, ma ci manca la nostra privacy, abbiamo voglia di ricostruire una casa vera”. Infatti – e la cooperativa Rosa Camuna è tra gli esempi più felici – la sistemazione prevede una sola stanza per tutta la famiglia, che spesso consta di 8-10 membri. “Hanno voglia di contribuire, di integrarsi – commenta Rino Bianchi – vogliono trovare un lavoro, non restare qui sospesi”.
Il sogno di tornare a casa
Scendendo di un piano ci sono i mini alloggi degli ucraini. Qui la semantica è diversa, a partire dal cartellone disegnato con la bandiera ucraina sulla porta d’ingresso: “Il nostro desiderio – dice Julia Shapoval – è di tornare a casa il prima possibile. Arrivo da Poltava, ho voluto portare i miei figli lontani dalle bombe. Il più grande ha una paralisi cerebrale e quando è iniziata la guerra ha smesso di parlare, ora ha ripreso a dire qualche parola, ma qui mancano le terapie a cui era abituato, non conosciamo la lingua. Mio marito è rimasto là, quello che mi preoccupa è che si sta abituando ai bombardamenti, ormai non ha più paura. Tante volte mi dico che ormai la situazione si è calmata, che posso tornare in Ucraina, ma poi penso al perché sono venuta qui: volevo proteggere i miei figli e voglio continuare a farlo”.
Anche Halyna Hlukhova è scappata dall’Ucraina: “Vengo da Cherson, lì avevo uno studio da estetista, sono specializzata nelle sopracciglia. Quando è scoppiata la guerra sono andata via con mia mamma, mia figlia e il mio cane. Io e mio marito siamo divorziati”. La bandiera sulla porta non delinea solo differenti gradi e paralleli: “Prima l’Europa occidentale mi sembrava un sogno – dice Halyna piangendo – ora il sogno è tornare in Ucraina”. Nel frattempo la bimba che ha in braccio le asciuga le lacrime e il cane le lecca le mani.
Qualche sedia più in là, Khalil osserva la scena: “Ci ho parlato, con quelli arrivati dall’Ucraina. L’Afghanistan è in guerra da quarant’anni, io li capisco, piangono e mi spiace per loro. Se non avessi otto figli, sarei là a combattere contro i russi, che hanno fatto male tanto a noi quanto a loro”.