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Mi incarti due etti di Btp, di quello buono

Il Btp Day sembra andato bene. Ma è davvero tutto oro ciò che luccica? Molti non sembrano essersi resi conto dei rischi sottostanti se non si troverà un accordo sul futuro di Eurolandia.
A cura di Luca Spoldi
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Giuseppe Mussari (ABI)

C’è una gran voglia di darsi pacche sulle spalle dalle parti dell’Abi e del mondo politico per i risultati del primo dei due “Btp Day” (il secondo è in programma il 12 dicembre prossimo), in cui le banche aderenti su base volontaria all’iniziativa non hanno applicato commissioni sull’acquisto di titoli di stato: secondo le indicazioni fornite da Borsa Italiana in 86.681 contratti per un controvalore di quasi 2,6 miliardi di euro, per un controvalore medio di 32 mila euro per contratto, dati superiori alle medie nel primo caso, decisamente inferiori nel secondo (il controvalore medio per contratto sul Mot è di circa 39.500 euro in queste settimane) a conferma di una buona partecipazione degli investitori retail all’iniziativa.

A costo di sembrare un guastafeste debbo purtroppo far notare alcune cose: primo, per ogni scambio è necessario che siano venduti esattamente tanti titoli quanti sono acquistati e se gli acquirenti sembrano essere piccoli risparmiatori italiani (su cui dunque è stato trasferito il rischio di un eventuale default del Tesoro o di ristrutturazioni del debito pubblico tricolore, ipotesi un tempo neppure prese in considerazione ma ora non più impensabili, dopo i precedenti dell’Argentina e della Grecia) non vi è modo di sapere se a vendere siano stati gli “speculatori stranieri” che in queste settimane sembravano, a sentire alcune dichiarazioni di politici e giornalisti nostrani, i soli artefici di una “grande macchinazione globale contro l’Italia”. Veramente, anzi, vi sono vari indizi che suggeriscono che a vendere siano state principalmente banche e non solo banche estere (che i titoli di stato sembrano averli in buona misura già venduti negli ultimi due o tre mesi, con un’accelerazione nelle ultime tre settimane) ma anche banche italiane, le quali debbono del resto affrontare il nodo delle future ricapitalizzazioni a fronte di azionisti (in particolare le Fondazioni) non sempre in grado di sottoscrivere a mani basse le operazioni ma allo stesso tempo non sempre disponibili a lasciarsi diluire. Facile dunque “cedere alla tentazione”, per migliorare il rapporto tra il capitale “di buona qualità” e gli asset a rischio, di diminuire questi ultimi, vuoi riducendo l’esposizione verso titoli di stato (anche italiani) vuoi stringendo il credito e chiedendo il rientro delle posizioni percepite come più delicate.

Secondo, i volumi di nuovi titoli di stato che il Tesoro italiano deve emettere restano a dir poco impegnativi: oltre ai 6-8 miliardi di Btp che verranno emessi in giornata, nel mese di dicembre giungeranno a scadenza altri 22 miliardi di euro di Bot; a gennaio ne scadranno altri 15 miliardi; a febbraio andranno rimborsati 25 miliardi di Btp, 16 miliardi di Bot e 10 miliardi di Ctz; ulteriori rimborsi attorno ai 45 miliardi al mese sono in calendario anche a marzo e in aprile. In totale si avranno almeno 180 miliardi di euro di nuove emissioni in soli 5 mesi. Se il mercato non ritroverà fiducia nell’Italia e nell’intera Eurozona (stamane lo spread tra Btp e Bund oscilla sul 5,10% con un tasso sui Btp decennali del 7,37%, mentre un Btp a 5 anni rende il 7,70% e a 2 anni il 7,32%) la situazione rischia di essere insostenibile ed aver promosso sottoscrizioni “patriottiche” si rivelerà un azzardo non solo morale molto pesante, di cui pochi tra coloro che ieri hanno sottocritto titoli come fossero a ordinare due etti di prociutto dal salumiere sembrano essersi resi pienamente conto.

Del resto curve dei tassi piatte o invertite (in cui cioè i tassi a breve termine sono pari o superiori a quelli a lungo termine) in presenza di inflazione (viaggia attorno al 3% e l’eventuale ulteriore aumento dell’Iva va in direzione opposta a un suo calo) e di una crescita nulla o negativa (l’emissione dei Btp€i indicizzato all’inflazione europea di ieri, con un rendimento del 7,30% ha significato implicitamente un tasso di inflazione di breakeven, di -0,3% contro il +1,5% di fine ottobre, il che vuol dire che il mercato, non solo l'Ocse, non vede alcun tipo di crescita a breve termine) indicano proprio questo: che per il mercato “o la va’ o la spacca”. Ma non di qui a cinque o dieci anni (per cui basterebbe sottoscrivere titoli a breve termine per limitare il rischio), bensì di qui a pochi mesi.

Mesi in cui i paesi membri di Eurolandia dovranno decidere se accettare il rigido monetarismo tedesco o una spaccatura dell’euro: la prima ipotesi evita troppi sacrifici ai paesi “virtuosi” (ossia alla Germania) e impone dure manovre (ammazza-crescita) ai “reprobi”, mettendo nei guai, tra gli altri, anche la Francia (che infatti virtualmente ha già perso il suo status di emittente a tripla A ancora prima di un annuncio ufficiale in tal senso da parte di qualche agenzia di rating), la seconda equivale non ad una soluzione ma ad una catastrofe per molti versi simile a una guerra, dato che i costi di un “de-merger” tra le singole economie europee sarebbero micidiali (si calcolano attorno ai 300-600 miliardi di euro per i soli paesi “virtuosi”, molti di più per i “periferici” che fossero costretti a uscire) e produrrebbero un ritorno a micro-sistemi nazionali che già sul finire degli anni Novanta non avevano più prospettive in un mondo dove l’economia si stava rapidamente globalizzando e ancora meno ne avrebbero oggi.

Quale può essere la soluzione? Per un risparmiatore individuale, mantenersi liquido o su scadenze brevi (se dovete rischiare e potete prendere gli stessi tassi, tanto vale farlo per la minima scadenza temporale possibile) e infatti se si guarda il più scambiato ieri è stato un Bot (il maggio 2012 con 247 milioni di scambi) e, se possibile, acquistare come “bene rifugio” Bund tedeschi o meglio ancora T-bond americani, che rendono poco o nulla ma potrebbero avvantaggiarsi di un’ulteriore svalutazione dell’euro, evento che sembra tra i passi indispensabili per cercare di dare un minimo sfogo alle esportazioni e consentire la rivalutazione degli asset in dollari (di cui son pieni, ben più di quelli in euro, le casse delle banche centrali e dei grandi fondi sovrani di tutto il mondo). Per gli stati: mettersi d’accordo finalmente a livello europeo, potenziando gli strumenti disponibili (Efsf o Bce che siano) e adottando una maggiore disciplina di bilancio, disciplina che parta a livello culturale prima ancora che contabile.

Trovando poi il modo di incentivare la crescita (ad esempio agendo sulla leva fiscale) e tornando a investire per il proprio futuro, in modo sano ed equilibrato. Sostenere gli sprechi altrui non piace a nessuno, indipendentemente dai tassi praticati sui prestiti (o comunque piace solo a tassi così alti che si rischiano effetti deprimenti simili a quelli dell'usura), scommettere sullo sviluppo può essere un’opzione interessante: l’esempio del fondo sovrano cinese China Investment Corporation (CIC) che ieri ha fatto sapere di essere interessato, per ottenere ritorni stabili a medio-lungo termine, a investire nel National Infrastructure Plan da 30 miliardi di sterline con cui il governo inglese vorrebbe rinnovare le infrastrutture britanniche e sostenere l’economia è un esempio da seguire, pur con tutte le attenzioni del caso.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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