Il cammino parlamentare del decreto Emergenze è stato una sorta di compendio di questi primi mesi di governo Lega – Movimento 5 Stelle e ha in qualche modo restituito una serie di informazioni su come continuerà la legislatura. Un percorso che è cominciato tra molte difficoltà, con la messa a punto del decreto che è stata lenta e complessa, interrotta da errori e da una affannosa ricerca delle coperture. Ritardi e problemi su un provvedimento che la maggioranza immaginava dovesse essere celere e risolutivo dell’emergenza determinatasi a seguito del crollo del ponte Morandi: non è un caso che le polemiche dell’opposizione in questi giorni si siano concentrate sulla siderale distanza venutasi a creare tra i proclami degli esponenti del governo nelle ore immediatamente successive al crollo e il risultato del lavoro dell’esecutivo.
Col passare dei giorni, poi, il decreto pensato per dare risposte alla città di Genova si era ampliato, fino a diventare un testo sulle “emergenze” e a raccogliere proposte eterogenee e molto diverse fra loro. In particolare, nel testo è stata inserita una norma che definisce le modalità con cui debbano essere evase le pratiche dei cittadini di Ischia che hanno fatto richiesta di condono edilizio. La maggioranza ha impostato una sorta di braccio di ferro “comunicativo” con le opposizioni, parlando di norma necessaria per dare risposte “ai cittadini colpiti dal terremoto” e ricordando al PD la lentezza nella gestione delle emergenze della scorsa legislatura. Ma un condono è un condono, soprattutto se viene richiamata esplicitamente la folle legge del governo Craxi. E nel M5s non tutti hanno memoria breve o sono disposti ad accettare qualunque compromesso in nome della stabilità del governo. Così, le polemiche interne, il dissenso di alcuni parlamentari e il passo falso in Commissione Lavori Pubblici su un emendamento che smantellava proprio l’articolo 25 del decreto.
Ma, come vi abbiamo detto all’inizio, questo decreto era lo specchio fedele di questa legislatura, dunque… In Aula la maggioranza reggeva, Forza Italia si asteneva (dopo che alcuni suoi senatori avevano contribuito a “ripristinare” l’articolo 25 nella versione voluta dal governo) e nel voto finale, per non correre rischi, arrivava anche il soccorso nero di Fratelli d’Italia. Il decreto passava, dopo una discussione molto animata al Senato, con l’esultanza e le provocazioni di Toninelli, con gli interventi strampalati di senatori di maggioranza e opposizione, con gli attacchi di Renzi e con l’incapacità della Casellati di “reggere l’Aula”. Un riassunto breve di questi primi mesi, insomma.
Poi, il decreto Sicurezza alla Camera, con la prima timidissima emersione di un dissenso strutturato all'interno del Movimento 5 Stelle, concretizzatasi con una garbata lettera in cui si chiedeva (pensate un po'!) ai vertici di poter discutere ed emendare il provvedimento. Detto in altre parole, i 19 eletti del M5s hanno chiesto il permesso per esercitare loro diritti/doveri, garantiti dalla Costituzione. Permesso negato, tra l'altro. E, si badi bene, negato non perché si reputi il dl sicurezza e immigrazione come un buon provvedimento (come ha confermato Brescia a Internazionale), ma perché non si può mettere in pericolo la stabilità del Governo. E l’ultimatum di Salvini (o passa entro il 3 dicembre, ultima data utile, oppure salta tutto) ha chiuso il cerchio.
Nemmeno la polemica sugli inceneritori deve trarre in inganno. Siamo ovviamente su un terreno caratterizzante per il Movimento, una rivendicazione storica su cui non c'è motivo né modo per cedere, ma Salvini ha ugualmente giocato la sua partita. E senza arretrare, considerando che, malgrado il tema non sia nel contratto di governo e all'Ambiente ci sia il generale Costa, il ministro dell'Interno si è permesso di portare la questione in conferenza stampa a Napoli e di ribattere alla sollevazione grillina (a tutti i livelli) con una mezza sfida: la visita all'impianto di Copenhagen con la pista da sci sul tetto.
Insomma, è piuttosto complicato giocare a braccio di ferro con Salvini. Il punto è che, scaramucce mediatiche a parte, non solo la legislatura, ma anche il governo Lega – M5s, con o senza Conte, sembrano poter durare a lungo.
Partiamo dai fatti. La maggioranza è solida, non solo perché i numeri di Camera e Senato sembrano rassicuranti, ma anche per la possibilità di ricorrere al “soccorso nero”. Fratelli d’Italia ha sostanzialmente lo stesso programma della Lega e l’appoggio sul decreto Genova rischia di non essere un’eccezione. Meloni, pur avendo la necessità di non farsi schiacciare a destra da Salvini, ha sempre spiegato di voler votare e lavorare coerentemente con la piattaforma con la quale si è presentata agli elettori, racchiusa nello slogan “prima gli italiani”. Una formula buona per essere piegata alle contingenze del momento, ma soprattutto per rafforzare la posizione di Salvini.
Seconda questione: il dissenso interno ai 5 Stelle. I voti ravvicinati su immigrazione e Genova hanno mostrato in tutta evidenza che non esiste una fronda interna al Movimento, ma che il dissenso è limitato a pochi eletti, che peraltro raramente vanno fino in fondo. Anche perché, come vi abbiamo spiegato qui, le procedure interne sono lente e farraginose, dunque aiutano i vertici a tenere sotto controllo le polemiche e a disinnescare le tensioni.
Terza: l'opposizione è divisa e i leader "spendibili" si contano sulle dita di una mano, a voler essere generosi. Il PD è impegnato in un congresso difficile e forse inutile; Forza Italia non ha futuro e difficilmente la transizione da Berlusconi a Tajani (?) andrà in porto senza sfasciare ciò che resta del partito; LeU non esiste più e Fratelli d'Italia semplicemente non è opposizione.
L'accordo su cui si regge il Governo è basato su un concetto singolare: l'idea che un contratto di governo striminzito e generico possa dirimere le conflittualità tra due forze politiche presentatesi su schieramenti contrapposti e con programmi inconciliabili in molti punti sostanziali. È evidente che le cose stiano in altro modo. Salvini e Di Maio stanno coltivando i propri "interessi", ovvero stanno cercando di portare a casa i provvedimenti intorno ai quali hanno costruito la loro fortuna politica. A ben guardare, da un punto di vista sostanziale la bilancia sembrerebbe pendere a favore di 5 Stelle (decreto dignità, reddito e pensioni di cittadinanza, decreto emergenze, ddl anticorruzione), ma resta un dato di fondo: a meno di clamorosi e inaspettati ribaltoni "a sinistra", Salvini è nelle condizioni di rompere quando vuole, Di Maio no. E di decidere quando e come riportare gli italiani al voto. Di Maio si sta presentando come quello disposto a cedere sul piano ‘ideologico‘ per portare a casa misure concrete, Salvini come quello disposto a concedere qualcosa ai 5 Stelle pur di continuare a determinare l'orientamento ideologico e politico del Governo. Finché questo equilibrio fondato su due binari comunicativi regge, l'accordo non è in discussione. Anche per un ragionamento più ampio del leader leghista.
Salvini è un politico accorto e sa benissimo che in questi mesi si sta delineando una saldatura fra i due elettorati, con un numero ampio di persone che sostiene il governo e che potrebbe reagire con rabbia e delusione a una eventuale rottura unilaterale del rapporto coi 5 Stelle "senza giustificato motivo". Inoltre, il leader leghista sa che i dati dei sondaggi vanno presi con grande accortezza. I voti e il consenso personale che sembra aver guadagnato in questi mesi non sono ancora "consolidati", ma strettamente legati al contesto politico attuale. È consenso (ancora) fluido e gli italiani bruciano leader politici con una velocità imbarazzante. Se non è stupido (e non lo è), il prevedibile boom delle Europee lo sfrutterà per ampliare l'egemonia nel centrodestra (mangiandosi ciò che resta di FI, soprattutto sui territori) e per colmare il gap di rappresentanza parlamentare coi 5 Stelle (aprendo le porte ai transfughi di FI e FDI, ma anche del M5s). E non per far saltare il banco.