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Opinioni

Mercati sottotono: oltre ai tassi occhi puntati su Portogallo e petrolio

Oltre alle attese per un cambio di politica monetaria da parte di Federal Reserve e Banca centrale europea in dicembre, i mercati osservano la crisi del Portogallo e quella petrolifera, interrogandosi sui possibili sviluppi futuri…
A cura di Luca Spoldi
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Giornata fiacca per i mercati, che attendono di vedere se, come sembra, a dicembre la Federal Reserve alzerà i tassi sul dollaro mentre quasi contemporaneamente la Bce li ridurrà sull’euro (o aumenterà il proprio programma di allentamento quantitativo), finendo con l’indebolire ulteriormente la valuta unica europea o se le cose andranno diversamente.

In ogni caso già la decisione delle due banche centrali di modificare la propria politica monetaria verso lo scadere dell’anno appare irrituale, dato che solitamente l’ultima riunione dei rispettivi board serve più per fare il punto dell’attività svolta e aggiornare le previsioni per il nuovo anno che non per introdurre modifiche al quadro esistente, ma tant’è. Lo scenario del resto appare solo superficialmente calmo dopo la doppia tempesta estiva dei mercati finanziari (prima per la crisi greca, poi per quella cinese) e potrebbe terminare bruscamente se, ad esempio, in Portogallo la crisi politica dovesse degenerare ulteriormente o se il petrolio tornasse a segnare nuovi minimi.

In verità nel caso di Lisbona le tensioni almeno in parte si sono stemperate oggi dopo un paio di giornate molto nervose, ma molti commentatori segnalano come sia in corso una crisi di rappresentanza democratica come già accaduto in Italia, Spagna e Grecia, dove gli elettori almeno in parte non sono più sovrani avendo i rispettivi governi dovuto abdicare, da tempo, nel bene e nel male, in favore della “burocrazia” europea, Commissione Ue o Bce che sia, alle cui decisioni (la prima per quanto riguarda le politiche fiscali, la seconda per quelle monetarie) tutti i governi dell’Eurozona sono legati sebbene con un “peso” diverso da paese a paese.

Più insidiosa resta la crisi petrolifera che è al tempo stesso una manna per i paesi importatori, come l’Italia (ma pure Cina e Giappone), e una maledizione per i produttori, come la Russia, la Norvegia o la Gran Bretagna (oltre che per gli stati medio orientali), ma anche gli Stati Uniti. Oggi la “scusa” per veder scendere il prezzo del greggio, a Wall Street, sotto i 41,80 dollari al barile è stato il dato diffuso dall’Eia (Energy information administration) secondo cui la scorsa settimana le scorte Usa di greggio sono aumentate di 4,2 milioni di barili contro un più modesto incremento di 0,8 milioni atteso dagli analisti avevano stimato un aumento pari a circa 0,8 milioni di barili.

Più in generale in molti si aspettano che il progressivo ritorno dell’Iran sulla scena dopo l’accordo sul nucleare con gli Stati Uniti e la ripresa dei contatti diplomatici con i leader europei (il presidente iraniano, Hassan Rohani, è atteso a Roma il 14 novembre per poi fare rotta verso Parigi dove il 16 e 17 novembre interverrà alla conferenza generale dell’Unesco per poi incontrare Francois Hollande) possa aumentare la pressione competitiva sul mercato, in particolare per quanto riguarda le forniture all’Europa. Questo potrebbe rendere più complicati i rapporti con la Russia (con possibili conseguenze proprio sullo scenario siriano), dato che Mosca esporta il 70% del proprio petrolio proprio in Europa.

Così la crisi economica legata alla guerra dei prezzi scatenata dall’Arabia Saudita da oltre un anno, ufficialmente per mettere in difficoltà i produttori di shale oil statunitensi, in pratica (sospettano molti) per “ammorbidire” Vladimir Putin (dato che il 50% delle entrate statali russe dipende dall’export di petrolio e gas naturale), potrebbe affiancarsi una crisi geopolitica, non tra Russia e Arabia Saudita, che esporta principalmente verso l’Asia il suo greggio, ma tra Mosca e Teheran, il cui petrolio è simile come caratteristiche a quello russo e si rivolge allo stesso mercato di sbocco, appunto l’Europa. Il ministro iraniano per il petroli, Bijan Namdar Zanganeh, ha del resto già fatto sapere che la priorità di National Iranian Oil Company (l’equivalente iraniano di Eni) sarà recuperare le quote di mercato perdute più che difendere i prezzi.

Secondo l’Associazione internazionale dell’energia (Aie), del resto, prima che il petrolio possa rivedere gli 80 dollari al barile dovranno passare almeno cinque anni, con importanti conseguenze anche per quanto riguarda i futuri investimenti del settore. Stati Uniti, Canada e Brasile dovrebbero infatti ridurre gli investimenti e tagliare la produzione. Iran e Iraq sono invece visti in recupero, anche se non è chiaro quanto ci vorrà a Teheran per tornare ai livelli produttivi del 2012 (prima che scattassero le sanzioni internazionali), pari a 2,5 milioni di barili di petrolio al giorno.

Ne beneficerà più di tutti, sembra, l’India, che registrerà il maggior aumento dei consumi al mondo arrivando a 10 milioni di barili al giorno entro il 2040, mentre la Cina per la stessa data avrà consumi doppi a quelli degli Usa ma grazie alla forte spinta per l’efficientamento energetico vedrà crescere i consumi meno che proporzionalmente. Sempre che per allora lo scenario non sia nuovamente mutato, cosa tutt’altro che improbabile.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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