Non è Hollande il problema. E’ Francois Hollande, che vince (di misura) il primo turno delle elezioni presidenziali francesi col (28,6% dei consensi) battendo il presidente uscente Nicolas Sarkozy (27,1%) e la candidata di estrema destra, Jean-Marie Le Pen (arrivata al 17,9% incanalando il voto di protesta antieuropeista più e meglio del candidato di estrema sinistra, Mélenchon, al 10,1%) a preoccupare i mercati provocando l’ennesimo tonfo dei listini azionari europei, Piazza Affari inclusa, ma anche un nuovo “fly to quality” che porta la liquidità a parcheggiarsi sui “sicuri” Bund tedeschi facendo così risalire ulteriormente il rendimento dei Btp decennali italiani (stasera al 5,73%, circa 7 centesimi più di venerdì) e lo spread contro Bund (allargatosi oggi al 4,09%, 13 centesimi sopra i livelli della vigilia visto il contemporaneo calo dei rendimenti sui titoli tedeschi)? Ma anche no: a preoccupare gli operatori al di là dei nomi e degli slogan urlati in campagna elettorale sono da un lato alcuni dati macroeconomici che confermano come sia in Cina sia in Europa al momento sia in atto un rallentamento economico che dal settore produttivo rischia, soprattutto nel vecchio continente, di estendersi ai consumi anche a causa dell’eccessiva “iconoclastia” fiscale che sta portando a ricercare inutili patenti di virtuosità al prezzo di continue correzioni dei conti che, sia che vengano realizzate attraverso innalzamenti delle imposte come finora in Italia o tramite tagli alle spese (più annunciati che realizzati in Grecia, Portogallo e Spagna) a breve termine hanno ugualmente un effetto fortemente pro ciclico ossia recessivo, anche se nel medio-lungo termine potrebbero (quando si trattasse di misure di taglio della spesa improduttiva, liberalizzazione e miglior indirizzo dei sussidi ad attività di ricerca e sviluppo e di promozione di nuovi settori economici emergenti) accrescere il potenziale di crescita dell’economia (il viceministro dell’Economia, Vittorio Grilli, ha parlato di un effetto netto positivo delle manovre varate in queste settimane dal governo di un potenziale di crescita aggiuntiva da qui al 2020 “di circa 2,4 punti percentuali di Pil, circa lo 0,3% all’anno in più rispetto a una situazione di non introduzione delle riforme”, ma la previsione andrà ovviamente sottosta a verifica).
Le divergenze in Europa rischiano di aumentare. Il problema legato nello specifico al risultato elettorale francese è che, salvo un drastico e repentino mutamento del quadro politico anche a Berlino (che quest’anno vivrà a sua volta un importante appuntamento elettorale a maggio), a breve termine le divergenze tra la “virtuosa” Germania (che ha saputo compiere riforme importanti un decennio or sono sotto il governo del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, accrescendo la propria competitività ed allacciando rapporti commerciali con l’Asia e la Cina in particolare) e il resto d’Europa (Francia compresa, visto che chiunque si siederà all’Eliseo dovrà scegliere se varare riforme draconiane per cercare di recuperare il divario di competitività di cui soffre una delle più chiuse economie del vecchio continente, scontrandosi con un paese impreparato a tale scenario, o cercare di prendere tempo anche a costo di incrinare l’asse con Berlino, limitando i danni a breve ma rischiando comunque di restare in mezzo al guado proprio nel bel mezzo di una recessione) sembrano destinate a crescere ancora. In Italia il quadro è complicato ulteriormente da un paio di elementi: il primo è che con lo spread tornato sopra quota 400 punti base “l’effetto Monti” sembra esaurito e si alzano sempre più di frequente voci che vorrebbero andare quanto prima alle elezioni (in ottobre-novembre), col rischio di riconsegnare il paese nelle mani di quella stessa classe politica che (con la complicità di banche e “poteri forti” imprenditoriali) da venti anni ha mal governato la cosa pubblica e azzerato ogni capacità di crescita netta dell’economia del Belpaese; il secondo è che se anche questo rischio fosse evitato l’esecutivo appare incapace di incidere significativamente nel “modus vivendi” del paese, anche perché viene sostenuto non da un consenso popolare esplicito (che anzi appare in calo rispetto alle aspettative generate al momento del suo debutto) quanto dal voto parlamentare di quegli stessi partiti ed esponenti politici che, come si diceva prima, hanno portato il paese nella situazione in cui si trova continuando a negare l’esistenza di crisi e debolezze che si andavano accumulando sempre più profondamente.
State in campana. In un simile scenario, che per fortuna è continuamente in divenire e quindi non è escluso alla fine riesca a risultare meno peggio di quanto le ipotesi più negative possano oggi portare a disegnare, la prudenza resta d’obbligo da parte di tutti, ma in particolare dei risparmiatori/contribuenti italiani. Da un lato infatti c’è il rischio di svegliarsi una mattina e scoprire, magari in ritardo, che gli strumenti in cui si erano investiti i propri risparmi hanno perso valore. Il problema, badate, riguarda qualsiasi asset, comprese case e terreni, nonostante per quel che riguarda il mercato immobiliare si siano diffuse di recente “scenari” se non ottimisti almeno speranzosi di una “prossima” ripresa di transazioni e prezzi (che però mi risultano da contatti diretti con operatori del settore essere ancora alquanto deboli, invece), non solo azioni o titoli di stato (o peggio che mai obbligazioni bancari e societarie, che spesso oltre a non godere delle garanzie di un emittente statale non offrono neppure un grado di liquidità soddisfacente, ponendo molti rischi per gli investitori nel caso di uno smobilizzo anticipato dell’investimento). Va da se che anche in questo caso riforme strutturali potrebbero nel medio termine rilanciare l’attrattività di taluni settori come il comparto immobiliare stesso (ad esempio anche attraverso una più generale ripresa dell’attività economica che si riflettesse in maggiori canoni di locazione sia degli immobili residenziali sia di quelli commerciali), mentre insistere solo sul lato delle entrate fiscali finirebbe (così è già, di fatto) col deprimere i rendimenti netti e dunque prolungare la fase di stanca del mercato. Che poi il viceministro Grilli sottolinei che il governo non ha “in programma patrimoniali o altri interventi fiscali” appare davvero il minimo, anche perché l’Imu è già una patrimoniale e rischia di rivelarsi a dicembre più pesante di quanto non si sia indotti a stimare ora, visto che a fine anno si dovrà pagare il conguaglio anche sulle addizionali comunali che nel frattempo fossero state varate.