L’Italia sta fallendo un pezzo alla volta, mentre a Roma ci si perde in discussioni infinite che riguardano la sorte di un vecchio signore milanese che da vent’anni ha illuso gli italiani che il futuro riservava loro solo grandi opportunità, le crisi erano invenzioni della stampa e la colpa di tutti i guai del paese erano rappresentati dalla politica (dei suoi avversari, ovviamente) e da una magistratura “di parte”. La realtà sempre più evidente è invece che una crisi dovuta in primis alla incapacità di molte, troppe, aziende italiane nell’adeguare rapidamente la propria produzione al mutare dello scenario macroeconomico nei diversi mercati di riferimento e che le politiche di austerity fortemente sponsorizzate dalla Germania hanno finito con l’accentuare trasformandola in una feroce crisi di domanda sta letteralmente facendo tabula rasa dell’apparato produttivo italiano.
Basta scorrere gli annunci fallimentari e si vede come in Italia ormai sono in vendita interi complessi, dalla Sicilia al Triveneto passando per la Campania, il Lazio, la Toscana o il Piemonte. Ma chi o cosa sta fallendo o è già fallito ed è solo più in cerca del “cinese” o dell’”indiano” di turno che compri per poche centinaia di migliaia di euro o al massimo qualche milione impianti e attrezzature, terreni e capannoni che fino a uno o due anni fa valevano ancora svariati milioni? Purtroppo quasi tutto quello che una volta rappresentava l’eccellenza del “made in Italy”, spesso indipendentemente dalla qualità delle produzioni e dalla capacità di innovazione.
A causa del perdurare ormai da oltre quattro anni della crisi della domanda finale italiana (e della sempre più accesa competizione per riuscire a ritagliarsi una quota di mercato all'estero), sono ormai in vendita intere aziende enogastronomiche, pastifici, industrie tessili, macchinari da cantiere, attrezzature per produrre birra e naturalmente impianti e attrezzature tecnologici e informatici, alberghi e complessi edilizi vari, per non parlare di esercizi commerciali e ristoranti. Insieme con le fabbriche e i negozi spariscono non solo migliaia di posti di lavoro e viene messa a rischio la sopravvivenza stessa di centinaia di migliaia di nuclei familiari, ma anche competenze e “know-how” accumulatesi in decine di anni, marchi storici, rapporti commerciali consolidati.
Tra gli ultimi “nomi noti” a finire con l’acqua alla gola è ad esempio la Sangemini, finora controllata dagli armatori campani Rizzo, Bottiglieri e De Carlini, dopo che il gruppo Norda della famiglia Pessina si è tirata indietro a pochi giorni dalla scadenza per la presentazione del piano industriale che avrebbe dovuto garantire il rilancio del marchio dopo il rifiuto delle banche (tra i creditori in questo caso campeggia il gruppo UniCredit), cui fa capo un’ottantina di milioni di euro di debito, di concedere particolari “sconti” o agevolazioni per arrivare a una riscadenziazione e ristrutturazione del debito stesso. Ma se digitate la parola “fallimento” su Google troverete decine di altri casi, dalla Italian Clothing Company Srl (Icc) di Lodetto di Rovato, nel bresciano, alla Cartiera Verde Romanello, nel milanese.
Si tratta nella maggior parte dei casi di medie e piccole, a volte piccolissime, imprese la cui crisi, a prescindere che si concluda con un fallimento, una cessione o una faticosa risalita, non fa notizia come invece possono farla Richard Ginori,l’Ilva, piuttosto che le difficoltà di Risanamento, Carlo Tassara, Fondiaria-Sai, Rcs MediaGroup, Alitalia o finanche delle attività italiane di Alcoa o di Fiat (a proposito: anche in agosto per il mercato europeo dell’auto la “luce in fondo al tunnel” resta una chimera con vendite in calo mediamente del 5% su base annua e cali più marcati segnati da Psa Peugeot Citroen, -17,3%, Volkswagen, -11,2%, e proprio Fiat -4,8%, mentre recuperano Daimler, +5,8%, Renault, +6%, e Bmw, +9,8%). Eppure sono proprio le piccole e medie imprese, con tutti i loro limiti culturali, finanziari e organizzativi, che costituiscono l’ossatura del settore industriale e dei servizi di questo paese sempre più “chiuso per cessata attività” o in attesa di essere (s)venduto al miglior offerente.
Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur imparavano a tradurre un tempo gli studenti italiani dalle Storie di Tito Livio. La locuzione andrà aggiornata in “mentre a Roma si discute, l’Italia viene espugnata” o riusciremo a vedere finalmente varate quelle riforme necessarie a ripartire, possibilmente senza bruciare una o più generazioni e senza obbligare un numero crescente di “cervelli” (e di braccia) italiani ad emigrare all’estero in paesi come la Germania (ma persino la Spagna o la Francia), dove ancora si riesce ad avere una prospettiva per il futuro? Fatta chiarezza sulle colpe passate quanto meno per evitare di ripetere gli stessi errori, sarebbe ora di smetterla di perdere tempo nelle vicende personali di questo o di quell’anziano leader politico (o imprenditore o banchiere) e rimettere in moto il paese, sempre che non sia come invece in molti temono già troppo tardi visti i livelli raggiunti dal nostro debito pubblico.