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Mediazione obbligatoria: gli aspetti problematici ad un anno dall’entrata in vigore

Mediazione obbligatoria i problemi più gravi evidenziati dopo un anno di applicazione concreta, il comportamento degli enti di mediazione, i mediatori, le correzioni apportate. In attesa del 20 marzo 2012 quando diventerà obbligatoria anche la mediazione per le controversie condominiali e rca. Aspettando la sentenza della Corte Costituzionale.
A cura di Paolo Giuliano
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Numerosi sono stati i tentativi  di eliminare i ritardi della giustizia civile e abbreviare i tempi dei processi (cercando di evitare le condanne ricevute in sede europea dallo Stato Italiano per l’ingiusta lunghezza dei processi).

Volendo riassumere tali interventi per “tipo” basta ricordare che

  • si è agito sul “rito” o sul “procedimento” modificando il codice di procedura civile (dal 1990 il codice è stato modificato una decina di volte)
  • si è cercato di razionalizzare e ottimizzare la macchina della giustizia e le risorse (ad esempio accorpando Preture e Tribunali)
  • si è cercato di aumentare il numero dei Magistrati, anche reclutando Giudici non togati, come ad esempio i c.d. Giudici di Pace, ai quali è stata affidata una parte del contenzioso gravante sui Tribunali, si pensi al risarcimento dei  danni per i sinistri stradali o alle opposizioni per le infrazioni al codice della strada (ma, questo reclutamento straordinario pesa sul bilancio statale perché tali Giudici sono pagati sempre dallo Stato, anche se, si potrebbe dire, sono pagati a cottimo)
  • oppure sono state introdotte automatiche sanzioni o l’automatico risarcimento dei danni per cause infondate (si pensi al nuovo art. 96 cpc comma III rubricato  come “Responsabilità aggravata” il quale prevede che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata), anche se sarebbe stato opportuno proseguire su questa strada e completare il percorso prevedendo una responsabilità solidale per le spese giudiziarie e per i danni tra l’avvocato (che introduce o segue cause infondate) e il cliente.

Questi interventi non si sono dimostrati risolutivi, sia perché, da un lato, dopo ogni riforma i tempi dei procedimenti restano alti (e, comunque, l’arretrato resta costante), dall’altro, il costo di tutti questi interventi o il costo (complessivo) della macchina giudiziaria resta a completo carico dello Stato (vedi Giudici di Pace).

Allora, è stata cercata un’altra strada, che potesse servire a ridurre i tempi della giustizia, possibilmente senza costi per lo Stato, una sorta di “esternalizzazione” del sistema giustizia o del servizio giustizia. La soluzione è stata individuata ipotizzando un filtro al contenzioso o pensando di prevedere una fase pre-contenziosa che potesse servire ai litiganti per valutare le proprie “carte” (o per avere un parere ulteriore sulle proprie posizioni) o per simulare l’esito del processo (attività comune negli Usa).

È evidente che una prima valutazione del contenzioso, serve a ridurre il numero delle cause e la diminuzione del numero complessivo della cause dovrebbe ridurre il tempo medio complessivo dei procedimenti rimanenti. Se, poi, a questo sia aggiunge che, ponendo il costo di questa prima selezione a carico dei litiganti privati e non dello Stato, si dovrebbe avere una diminuzione del costo della macchina giudiziaria o, quanto meno, non dovrebbero aumentare le spese della macchina giudiziaria, permettendo, così, alle scarse risorse disponibili per la giustizia, di essere sufficienti se usate per un numero minore di procedimenti, si potrebbe affermare di aver trovato la strada per risolvere uno dei grossi problemi del paese.

Se, da un lato, è buona l’idea (astratta) di avere una sorta di filtro o di pre-valutazione, soprattutto se affidata a persone preparate, infatti, una valutazione preventiva della controversia, soprattutto, quando si tratta di questioni di puro diritto, può servire a valutare l’attendibilità o l’infondatezza delle proprie tesi, dall’altro, è opportuno dire che il mezzo scelto, la c.d. mediazione (o media-conciliazione), o quanto meno le modalità con cui si svolge la media -conciliazione non hanno dato (dopo un anno di applicazione) i risultati sperati (basta dire che la mediazione c.d. valutativa, presente nel testo della legge, e che potrebbe rappresentare – in senso lato – la codificazione di quel filtro pre-contezionso di cui si parlava in precedenza, è stata, nella migliore delle ipotesi,  bistrattata, nella peggiore ne viene negata l’esistenza) mentre è espressamente prevista dall’art. 13 del decreto legislativo n. 28 del 2010, il quale recita testualmente “Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di un'ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. Resta ferma l'applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile” (in modo diverso questo articolo non può essere spiegato).

La mediazione obbligatoria è stata introdotta con il decreto legislativo del 4 marzo 2010 n. 28, il quale ha previsto che obbligatoriamente in alcune materie  (in caso di lite su diritti reali, condominio, successioni, divisioni, responsabilità medica, sinistri stradali, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari) prima di poter iniziare un giudizio occorre attuare un tentativo di mediazione, presentando la relativa istanza presso uno (qualsiasi) degli organismi di mediazione presenti sul territorio.

L’organismo di mediazione ha il potere di nominare, in modo discrezionale, un mediatore, il quale cercherà di trovare un accordo tra i contendenti.

Il costo di questa procedura è interamente a carico dei litiganti.

L’accordo, naturalmente deve essere valido, cioè non deve essere contrario a norme imperative  (per valutare la validità dell’accordo è prevista l’omologazione da parte del Tribunale) e, ove l’accordo dovesse essere trascritto è necessario l’ausilio di un notaio (il cui costo si aggiunge al precedente).

Descritto sommariamente l’aspetto procedurale della mediazione, si può passare a trarre una sorta di primo bilancio della mediazione, dopo un anno di applicazione. Allora, si ripete che se si può affermare che l’idea di un filtro al contenzioso può essere valida, non si deve nascondere che il meccanismo predisposto dal legislatore presenta delle illogicità genetiche intrinseche (immediatamente rilevate e contestate fin dalla sua entrata in vigore nell’aprile 2011), inoltre, non si possono neppure nascondere le storture che l’applicazione concreta di questo meccanismo ha prodotto e che hanno contribuito a creare un contesto operativo anomalo.

Cominciando dalle illogicità originarie della legge istitutiva della mediazione obbligatoria, sul punto, senza dilungarsi troppo, si può ricordare che è stato osservato che la mediazione può essere obbligatoria o può essere onerosa, non può essere al tempo stesso onerosa e obbligatoria, in quanto, in questo modo, si porrebbe come un ostacolo all’accesso alla giustizia (la sentenza della Corte Costituzionale sulla questione è attesa per fine del 2012).

Senza considerare che, in alcune ipotesi, difficilmente la mediazione (per come strutturata) può essere considerata un elemento disincentivante il contenzioso, basta pensare alla situazione illogica e irrazionale in cui il povero cittadino si viene a trovare in caso di domande giudiziali che devono essere trascritte (es. divisioni). In tali situazioni chi pretende giustizia si trova a sobbarcarsi di un duplice onere (prima non esistente) infatti, occorre presentare la domanda di mediazione obbligatoria, ma per potersi tutelare, occorre  anche  notificare l’atto di citazione (e iscrivere la causa a ruolo), in quanto, altrimenti, non si può trascrivere l’atto di citazione, (in quanto la semplice istanza di mediazione non può essere trascritta). Quindi, il povero cittadino che deve tutelare un proprio diritto, invece di essere agevolato è sottoposto a una duplice ostacolo (e costo): sottostare alla mediazione (che dovrebbe disincentivare il contenzioso) e proporre una domanda giudiziale (che aumenta il contenzioso) da trascrivere. È evidente l’irrazionalità della situazione.

Per non parlare delle impugnative delle assemblee di condominio (obbligatorie da marzo 2012), queste contestazioni devono essere notificate al Condominio ex art. 1137 c.c. a pena di decadenza entro 30 giorni (dalla consegna del verbale o dal voto se il proprietario era presente).

In tali casi, ci si chiede, la mera presentazione dell’istanza di mediazione sospende il termine ex art. 1137 c.c. o il termine si sospende quando l’organismo comunica all’amministratore di  condominio la data del primo incontro (oppure anche in tale ipotesi il proprietario  – a propria tutela – dovrà presentare contemporaneamente istanza di mediazione e iscrivere la causa a ruolo). Nessuno, fino a ora, ha una soluzione certa (e dal 20 marzo la questione dovrà porsi). Senza considerare che, in presenza di un termine di decadenza come quello previsto dal codice civile all’art. 1137 c.c., chi si assume la responsabilità di una mancata (o ritardata) comunicazione dell’istanza di mediazione all’amministratore di condominio,  si ricorda che il ritardo o la mancata comunicazione determina la decadenza ex art. 1137 c.c.

E queste sono solo questioni “procedurali”, ma sussistono anche questioni “sostanziali”, infatti, l’amministratore di condominio non ha il potere di transigere senza un preciso incarico dell’assemblea, ma, soprattutto, l’amministratore di condominio non ha il potere di transigere “al buio” (senza avere la minima idea del contenuto di un eventuale accordo), allora, l’amministratore di condominio, per poter partecipare alla mediazione quante volte deve convocare l’assemblea (per informare i proprietari e ottenere i relativi pareri e autorizzazioni) e quante volte è possibile convocare una assemblea se la mediazione non può superare i 4 mesi ? Ora, salvo ipotizzare mediazioni concluse dall’amministratore del condominio di cui i proprietari sono completamente all’oscuro, quante volte l’amministratore di Condominio può convocare l’assemblea, considerando anche i tempi tecnici (tempi per le raccomandate) per convocare l’assemblea (quando lo stesso codice civile prevede che tra la ricezione della convocazione dell’assemblea e la data dell’assemblea stessa devono esserci almeno 5 giorni)

Questi  sono solo alcuni dei punti negativi della mediazione desumibili da una analisi logica della legge, ma, per comprendere il disastro della mediazione, occorre anche analizzare l’applicazione concreta della legge e rilevare altri spunti negativi, che possono giustificare i dati (poco lusinghieri) forniti del Ministero della Giustizia.

È opportuno subito notare che molte distorsioni del sistema che andremo – in seguito – a descrivere sono dovuti al fatto che la mediazione è stata vista come una fonte di mero guadagno o lucro (nel senso più becero dei termini), basti pensare che il valore medio di ogni procedimento di mediazione ammonta ad euro 93.700 (come risulta dai dati del Ministero della Giustizia del dicembre 2011), con tali importi l’istinto di partecipare alla spartizione della torta è molto alto.

Chiarito ciò, partiamo dagli organismi di mediazione, tali enti possono essere costituiti dagli Ordini professionali o da società private, tali enti si assumono il compito di predisporre tutta la struttura amministrativa per rendere possibile la mediazione (si pensi ai luoghi dovere svolgere la mediazione, agli archivi, alle comunicazioni alle parti ecc.). presso questi organismi di mediazione devono essere iscritti singoli mediatori, cioè coloro che concretamente effettuano l’intero tentativo di mediazione.

In pratica, il singolo cittadino – litigante (senza la necessità di un avvocato) può presentare una istanza ad uno qualsiasi degli enti di mediazione (paga l’ente) e l’ente, dopo aver fissato una data,  invita la controparte a presenziare alla mediazione (se la controparte – sempre senza avvocato – si presenta in mediazione pagherà anche lei l’ente).

All’ente è riservata la nomina del mediatore.

È evidente che i versamenti effettuati all’ente di mediazione dalle parti litiganti servono a coprire l’onorario del mediatore e i costi di gestione dell’ente stesso. E già qui sorgono i primi problemi, infatti, è evidente che questi organismi hanno dei costi di gestione che dovrebbero essere coperti dalle entrate provenienti dai procedimenti di mediazione effettuati. Però, mentre, gli organismi degli Ordini professionali possono anche pensare di non avere un lucro dai procedimenti effettuati, le società private devono (per forza) avere  un lucro o un attivo a fine anno, poiché per le società private di mediazione il lucro o il guadagno è l’elemento che giustifica la loro esistenza, l'alternativa, in caso di perdita, sarebbe o la chiusura o il fallimento. Ecco, dunque, che, in questo contesto è facile ipotizzare, anche considerando il valore medio della singola mediazione (euro 93.000),  che per di raggiungere un lucro (o per di non farsi scappare mediazioni),  la nascita del “porta cliente” dell’ente di mediazione o, quanto meno, è facile ipotizzare l’apertura della “caccia all’accaparramento della pratica di mediazione” (accaparramento che si ottiene sia proponendo sconti a chi garantisce un certo numero di procedimenti) sia proponendo un “ristorno” o un “ritorno” (di quanto percepito dall’ente stesso come onorario della mediazione) – sottobanco – a colui che garantisce un costante o cospicuo numero di procedimenti.

Questo è solo uno dei problemi, poiché la questione è molto più grave, infatti, se un ente di mediazione privato (es. società) deve tendere al lucro (e certo non può essere in perdita), occorre chiedersi come può una piccola società privata di mediazione essere realmente disinteressata rispetto un cliente (si pensi alle grandi compagnie di assicurazioni per i sinistri stradali) che può garantire un flusso illimitato e costante di procedimenti. Senza considerare che, nulla esclude che tali grandi operatori del contenzioso  (banche o assicuratori) costituiscano le loro belle società di mediazione, con tutte le conseguenze ipotizzabili.

Altra fonte di entrata per gli enti di mediazione è la formazione dei mediatori, in altri termini, gli stessi enti di mediazione predispongono dei corsi (a pagamento) per formare i mediatori (o meglio per rilasciare il titolo – cartaceo – di mediatore). A tal fine la legge prevede un corso di 50 ore (con esame finale di 4 ore), aperto a coloro che hanno una (qualsiasi) laurea triennale o con iscrizione ad un albo professionale [già ora sono immediatamente evidenti delle incongruenze se si considera che con questi bassi o scarsi livelli di preparazione  giuridica appare assurdo pretendere di affidare ad un mediatore (es. laureato in lingue arabe) una mediazione in materia di servitù o un legato in sostituzione di legittima (o altra materia obbligatoria) la quale richiede un’alta specializzazione giuridica e già questo elemento spiega gli scarsi risultati ottenuti dalla mediazione in un anno di applicazione].

Appena entrata in vigore la legge (marzo 2011) la mediazione (il titolo di mediatore) veniva “spacciato” o “venduto” come un mezzo per ottenere una nuova fonte di guadagno e di reddito, i destinatari di questo messaggio erano quei tanti giovani che freschi di laurea cercavano una piccola entrata ed erano pronti a spendere cifre considerevoli dai 1500 (prima del marzo 2011) a euro 800 (a gennaio 2012) per un corso di formazione.

Pur di lucrare sulla formazione, a questi aspiranti mediatori, scarsamente preparati, non venivano (e non vengono) dette una serie di cose: ottenuto il titolo di mediatore, questo da solo non serviva a nulla, poiché il mediatore deve iscriversi presso un ente di mediazione per poter esercitare, ma non sussiste nessun obbligo per nessun ente di procedere all’iscrizione, neppure per gli enti che fanno la formazione dei mediatori, [del resto, per quale motivo un ente di mediazione deve concedere l’iscrizione ad un mediatore scarsamente preparato,  impreparazione – si ripete –  istituzionalizzata dalla stessa legge sulla mediazione],  posto che un tale mediatore potrebbe essere fonte solo di guai, discredito  e responsabilità per l’ente stesso. Ecco dunque che ottenuto il titolo di mediatore, il giovane mediatore si trova a dover affrontare il primo “ostacolo”: la richiesta di iscrizione o accreditamento presso un ente  (non essendoci, si ripete, nessun obbligo per nessun ente di procedere all’iscrizione, neppure per gli enti che fanno la formazione stessa dei mediatori).

In realtà, sussistono ulteriori motivi che portano al rifiuto dell’iscrizione (o se si ottiene l’iscrizione alla non utilizzabilità del mediatore). Infatti,  costituire un ente privato di mediazione costa e se 5 o 6 persone hanno la forza economica di creare un ente privato di mediazione, potendosi definire soci fondatori dell’ente di mediazione e se, guarda caso, tali persone sono mediatori loro stessi, è facile ipotizzare che, questi mediatori – soci fondatori dell’ente di mediazione –  non hanno nessun interesse a dividere la torta delle mediazioni (ossia i guadagni derivanti dai procedimenti di mediazione) con altri soggetti, meri mediatori esterni agli enti stessi. (Si sorvola sulla pratica dell’apertura di sportelli di mediazioni in stile franchising)

In altri termini, la legge sulla mediazione ha permesso la creazione di enti di mediazione a “conduzione familiare” o quanto meno “enti di mediazione chiusi” che dividono i proventi delle mediazioni solo tra gli stessi soci fondatori (che ovviamente sono mediatori essi stessi), per superare questo sarebbe bastato vietare ai soci o ai fondatori degli enti di essere mediatori presso gli stessi enti, cosa, evidentemente, troppo, complessa o difficile.

Supponiamo, comunque, che il giovane mediatore riesca ad ottenere l’iscrizione presso un ente,  il tal caso, l’iscrizione del giovane mediatore è effettuata (o per lucrare sulla quota di iscrizione) o al solo al fine di usarlo come “specchio per le allodole” (o come “porta clienti” implicito). Infatti, la carenza di preparazione del singolo mediatore o la mancanza di fiducia dell’ente nel singolo mediatore (che ha comunque “formato”) potrebbe spingere a un’altra strategia: concedere l’iscrizione, ma non chiamare mai il mediatore a eserciate (del resto la scelta del mediatore è discrezionale dell’ente).

In questo modo l’ente di mediazione si protegge da eventuali negligenze, ma conserva il vantaggio di divide il lucro della mediazione solo tra i soci fondatori dell’ente, inoltre, ottiene anche un ulteriore beneficio occulto: la pubblicità indiretta fatta dai mediatori iscritti, ma non chiamati (ma che sperano di essere chiamati). Infatti, i mediatori iscritti (immaginatevi 800 mediatori iscritti presso lo stesso ente privato), prima di accorgersi della situazione, sono portati a essere solidali con l’ente e a fare a questo ente pubblicità o a portare procedimenti, nel miraggio di avere un incarico di mediazione.

Fino ad ora abbiamo osservato alcuni comportamenti degli enti di mediazione (e la cosa non è piacevole), ora, possiamo osservare la situazione dal punto di vista del mediatore,  e, si anticipa, le cose non migliorano.

La mediazione è stata presentata (si potrebbe anche dire venduta) come una opportunità di lavoro e, in un periodo di crisi come quello attuale, ottenere una fonte di guadagno con un minimo investimento inziale non è una opzione da scartare a scatola chiusa. Ecco, dunque, che tra settembre 2010 e luglio 2011 c’è stata una marea di corsi di formazione dei mediatori e sono stati rilasciati titoli di mediatori a tutti.

Ma a questi giovani mediatori non veniva detto che:

  • per poter esercitare dovevano iscriversi presso un organismo di mediazione
  • una volta iscritti (se si riesce ad iscriversi) il potere di scegliere il mediatore spettava solo all’organismo stesso, per cui se la scelta del mediatore è discrezionale l’organismo avrebbe scelto il mediatore (e, ovviamente, sarebbero stati privilegiati) i mediatori soci fondatori dell’organismo e non degli estranei, in ossequio al principio dell’ente di mediazione “a conduzione familiare”, che deve produrre lucro solo per i fondatori del medesimo o saranno scelti coloro che garantiscono all’ente un numero minimo di procedimenti di mediazioni (ecco il porta clienti implicito)
  • la complessità e la difficoltà delle materie comprese nella mediazione obbligatoria comporta che non tutti i mediatori possono essere usati (ed è inutile negarlo difficilmente coloro che hanno una laurea in lingue possono essere utili in una problematica di usufrutto congiuntivo o di una divisione ereditaria o una cautela sociniana), ma questo non poteva essere detto (anzi doveva essere nascosto) in sede di formazione, perché, altrimenti, avrebbe ridotto il numero delle persone che chiedevano il titolo di mediazione e avrebbe ridotto il lucro dell’ente derivante dalla formazione dei mediatori. Del resto, basta osservare che la mediazione valutativa, (che richiede la conoscenza della materia), comunque presente nel testo della legge, (e che potrebbe rappresentare – in senso lato – la codificazione di quel filtro pre-contezionso di cui si parlava in precedenza) è stata, nella migliore delle ipotesi,  bistrattata, nella peggiore né viene negata l’esistenza.
  • Ma veniva nascosto un altro elemento: la responsabilità a carico del mediatore e dell’ente per errori nel procedimento (come ad esempio la mancata indicazione dei dati identificativi dell’ente e la sua iscrizione nell’albo del ministero) 1 o errori nella mancata valutazione della capacità o legittimazione dei partecipanti alla mediazione 2  che possono incidere sull’accordo trovato dalle parti [basta pensare ad una mediazione avente ad oggetto una divisione, in cui non partecipano tutti i comproprietari, ma che, si conclude, comunque, con un accordo. Ed, ovviamente,  l’accordo viene firmato solo da  alcuni dei proprietari (poiché gli altri non hanno partecipato alla mediazione) oppure alla  nullità per contrarietà del contratto a norme imperative (si pensi all’accordo divisionale avente ad oggetto un bene immobile abusivo) e, certo, la conoscenza delle norme imperative non può essere ignorata dal mediatore (questo conferma che non tutti possono essere mediatori, ma occorre una solida preparazione e competenza  in materia)]. Tutti questi elementi sono importanti perché – altro punto che viene omesso – l’accordo raggiunto in sede di mediazione può essere omologato dal Tribunale, il quale deve verificare la validità dello stesso e conferire efficacia esecutiva al medesimo accordo in caso di inadempimento 3. (Fino a oggi è sconosciuto il tasso di omologazione degli accordi di mediaizone, cioè è ignoto quante mediaizoni superano il vaglio del tribunale)
  • Per non parlare degli accordi  che devono essere trascritti e che richiedono oltre alla presenza delle parti, del mediatore anche la sottoscrizione del notaio, il quale intervenendo alla fine del procedimento, (se non dopo la firma dell’accordo), può rifiutarsi di sottoscrivere il procedimento (sia per non aver responsabilità) sia per mancanza dei requisiti notarili di validità (senza considerare che il costo del notaio è un aggiunta al costo della mediazione), con evidente responsabilità del mediatore e dell’ente di mediazione, che si traduce in una beffa per i poveri litiganti che (a torto o a ragione) dovranno pagare l’ente e poi (ri)passare dal notaio (e sobbarcarsi del relativo ed ulteriore costo) per redigere un contratto trascrivibile.

Quanto detto permette anche di spiegare il motivo per cui si è assistito alla differenziazione anche tra enti di formazione (che non effettuano mediazioni e che hanno una scusa per non devono iscrivere i mediatori che formano) e gli enti di mediazione (che non fanno formazione) e che non hanno nessun obbligo di iscrivere i mediatori (e che non devono giustificare il loro rifiuto). In questa situazione, alcuni enti di mediazione, come scusa (pur non dovendo giustificare in alcun modo il loro rifiuto) per non iscrivere i mediatori (o si giustificano, appunto, dicendo che fanno solo formazione e non mediazioni concrete) oppure, se effettuano mediazioni, disincentivano le richieste di iscrizioni richiedendo quote associative astronomiche o appongono un ulteriore ostacolo richiedendo al povero giovane mediatore la stipula di una specifica assicurazione per la responsabilità civile (non prevista da nessuna norma), ovviamente, senza nessuna garanzia di affidare qualche mediazione al povero mediatore.

Nel tentativo di porre fine a questo “andazzo” nell’agosto 2011 il governo è intervenuto e ha previsto che gli incarichi di mediazione dovrebbero “girare” nell’ente di mediazione (in questo modo gli enti a conduzione familiare diventano ancora più chiusi, perché non avranno nessun interesse a iscrivere altri soggetti) o, quanto, meno le mediazioni devono essere affidati in base alle competenze dei mediatori (di fatto ammettendo di che non tutti possono essere mediatori e non è possibile con una laurea in lingue straniere occuparsi di un rendiconto di condominio o di un patto successorio, ma ovviamente questo non viene detto).

In questa situazione, è evidente che gli enti di mediazione a “conduzione familiare” restano chiusi (restano sempre più chiusi) , mentre gli enti che hanno iscritto mediatori a sbafo (ovviamente senza utilizzarli) cercano una scusa per ridurre il numero dei loro iscritti, e, per quanto possa essere assurdo, l’appiglio è stato fornito dal legislatore stesso, il quale, nel tentativo di “aumentare” il livello di competenza dei mediatori (senza però voler incidere sul titolo necessario per diventare mediatori) ha previsto che per conseguire il titolo di mediatori,  oltre il corso di 50 ore, occorre fare  un tirocinio (gratuito) di circa 20 mediazioni e devono fare un corso di aggiornamento di 18 ore biennali a pagamento (si suppone che in mancanza perdano il titolo di mediatore). Ecco, dunque che, oltre, il danno si prospetta la beffa, perché un mediatore iscritto nel marzo 2011 ad un ente (senza essere mai chiamato a svolgere mediazioni) a dicembre 2011 si vede “invitato” dell’ente medesimo a partecipare ad un corso di aggiornamento (a pagamento) pena l’esclusone della lista dei mediatori o la decadenza dal titolo di mediatore.

Quindi, un povero giovane mediatore,  dopo aver pagato per il corso da mediatore, senza aver mai potuto fare una mediazione (per i motivi sopra evidenziati) deve anche versare nelle casse dell’ente di mediazione un ulteriore obolo (500 euro per nove ore) per l’aggiornamento (parziale) e un ulteriore obolo (500 euro per le altre nove ore) per arrivare alle 18 ore di aggiornamento previste dalla normativa. In altre parole, un ulteriore fonte di guadagno per gli enti di mediazione (almeno per quelli che fanno solo formazione) un mezzo “giuridico” per eliminare il mediatore dalle proprie liste e limitare le mediazioni solo ai soci fondatori dell’ente medesimo. Altro mezzo giuridico per ridurre le liste è quello di non far fare il tirocinio sostenendo che non si fanno sufficienti mediazioni.

Del resto, il quadro desolante tracciato fino a ora è confermato dai dati diffusi dal Ministero della Giustizia sulle mediazioni effettuate fino a dicembre 2011 e tali dati risultano impietosi, infatti, dai dati si deduce che su un totale di 60.810 procedimenti (il cui costo è a carico esclusivo dei privati) solo nel 36 % dei casi si sono presentate tutte le parti in causa (ed ad agosto 2011 è stata fortemente sanzionata la mancata partecipazione di entrambe le parti).

E anche quando si sono presentate tutte le parti in causa (cioè in quel 36%) solo nella metà dei casi (cioè circa il 18%) le parti hanno raggiunto un accordo, nel restante 82% circa dei casi la mediazione è stata inutile o è fallita (usando i numeri solo 10.900 procedimenti su 60.810 hanno avuto esito positivo, il rimanente 50.000, la mediazione è miseramente fallita).

Elemento ancora più anomalo è dato dal fatto che il Ministero non dice quanti accordi hanno superato il vaglio dell’omologazione del Tribunale (cioè sono stati considerati validi) o quanti accordi sono stati trascritti senza che il notaio abbia sollevato obbiezioni.

Il problema, allora, non è solo comprendere perché si giunti a questo  “disastro” (il cui costo è direttamente a carico dei cittadini), disastro che dal 20 marzo 2012 (con l’obbligatorietà della mediazione anche per le controversie in materia di Condominio e di Responsabilità civile automobilistica) sarà ancora più evidente, ma il problema più importante è quello di porre dei correttivi reali a questo sistema (se non si vuole assumere solo una posizione passiva ed aspettare la decisione della Corte Costituzionale).


[1] Tribunale di Modica, 9 dicembre 2011 G.I. M. Giarrizzo “ritenuto che in ogni caso il processo verbale in esame non può essere omologato per avere omesso il sottoscrittore mediatore di indicare il suo legittimo status quale soggetto incluso nei ruoli di un organismo di conciliazione regolarmente registrato presso il Ministero della Giustizia; ritenuto che il processo verbale non contiene nemmeno l’indicazione degli estremi dell’iscrizione dell’organismo di mediazione nel registro ministeriale; ritenuto che le suddette irregolarità formali impongono il rigetto della chiesta omologazione e rendono superflua ogni indagine circa ipotetiche violazioni di norme imperative o contro l’ordine pubblico; P.Q.M. Rigetta l’istanza di omologazione”.

[2] Trib. Varese, Vol. Giur., decr. 13 febbraio 2012 G.T. Buffone “Giova precisare, peraltro, ce è preciso compito dei mediatori quello di accertare che, al tavolo di mediazione, si presentino soggetti con la piena capacità di disporre del diritto conteso, tenuto conto delle pubblicità ex Lege sottese alle misure di protezione degli adulti incapaci e della diligenza professionale di cui deve godere il mediatore. Sulla possibilità, però, di assumere decisioni nel corso del processo, sussiste il limite degli atti dispositivi, di cui all’art. 375 c.c.: il tutore non può, senza autorizzazione del Tribunale (v. artt. 374, 375 c.c.), procedere a transazioni. P.Q.M. Autorizza il tutore a partecipare a tutti gli incontri dei mediatori, in sostituzione dell'interdetto. In caso di possibile ipotesi transattiva, il tutore, per l'adesione e sottoscrizione, dovrà munirsi dell'autorizzazione di cui all'art. 375 comma I, n. 4 c.c..

[3] L’art. 12, Decreto Legislativo 28/2010 che il contenuto non contrario a norme imperative, è omologato, su istanza di parte, e previo accertamento anche della regolarità formale, con decreto del Presidente del Tribunale, nel cui circondario ha sede l’Organismo

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Avvocato, Foro di Napoli, specializzazione Sspl conseguita presso l'Università “Federico II”; Mediatore professionista; Autore di numerose pubblicazioni in materia di diritti reali, obbligazioni, contratti, successioni. E' possibile contattarlo scrivendo a diritto@fanpage.it.
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