La disponibilità a fare “qualsiasi cosa” necessaria a far risalire l’inflazione e riavviare l’economia europea espressa dal presidente della Bce, Mario Draghi, fa scattare nuovi acquisti sui titoli finanziari di tutta Europa, in particolare di paesi come Grecia o Italia apparsi maggiormente in affanno in questi mesi di deflazione crescente. Proprio National Bank of Greece con un guadagno del 6,5% è così miglior titolo dell’indice Eurostoxx Banks (in crescita del 3,3%), mentre sull’Eurostoxx50, paniere che raggruppa le 50 maggiori capitalizzazioni europee, Unicredit e Intese con poco meno di 5% tra i migliori dei componenti (pur essendo superati a Piazza Affari da Banco Popolare e Mediolanum, che segnano rialzi persino superiori ai 5 punti percentuali, mentre Ubi Banca, Bper, Azimut e FinecoBank salgono tra i 3 e i 4 punti).
Se per quanto riguarda Mario Draghi siamo ancora nell’ambito degli “annunci”, al clima euforico dei mercati contribuisce certamente anche una vera notizia, quella che la Pboc (la Banca del Popolo cinese, ossia la banca centrale di Pechino) ha dapprima fornito ulteriore liquidità, una cinquantina di miliardi di yuan ovvero poco più di 8 miliardi di dollari, in vista di una settimana molto impegnativa per il mercato (la prossima settimana sul listino cinese debutteranno 11 nuove società con una capitalizzazione prevista di quasi mille miliardi di yuan, ovvero circa 165 miliardi di dollari, una parte dei quali saranno drenati dalla liquidità presente sul mercato per rimpinguare le casse delle nuove matricole di borsa), poi ha tagliato per la prima volta negli ultimi due anni i tassi di interesse a un anno sia sui prestiti (dal 6% al 5,6%) sia sui depositi (dal 3% al 2,75%), mossa non del tutto inattesa dopo gli ultimi deludenti dati macroeconomici che hanno portato molti a pensare che Pechino non sarebbe riuscita a centrare i propri obiettivi di crescita del Pil quest’anno e che tuttavia è stata giudicata una gradita sorpresa.
Prima di spellarsi le mani in applausi a scena aperta converrebbe tuttavia soffermarsi a riflettere. La mossa di Draghi, che lascia intravedere il “bazooka” di un programma d’acquisto di titoli di stato sul mercato da parte della Bce, ha nuovamente compresso lo spread Btp-Bund e consente alle banche italiane (nei cui forzieri sono stipati oltre 400 miliardi di titoli di stato italiani) di non dover inseguire a tutti i costi con altri accantonamenti e svalutazioni l’ulteriore rialzo delle sofferenze (Abi in questi giorni ha certificato come a fine settembre le sofferenze lorde siano salite a quasi 177 miliardi dai 174 miliardi di fine agosto, mentre quelle nette sono passate da 79,5 a 81,4 miliardi col rapporto sofferenze lorde su impieghi salito al 9,3% e quello sofferenze nette su impieghi al 4,5%), concentrandosi semmai su alcuni segnali positivi come la ripresa del mercato dei mutui che se metteranno radici dovrebbero permettere alle banche di rivalutare i propri collaterali (ossia gli immobili dati a garanzia dei prestiti concessi) e sbloccare le cessioni di pacchetti di crediti in sofferenza o incagliati, ferme da alcuni mesi in assenza di accordo sul prezzo tra venditori e potenziali acquirenti.
Si realizzerebbe dunque la precondizione di un miglioramento delle condizioni del credito che potrebbe a quel punto finalmente contribuire alla eventuale ripresa. La quale tuttavia continua a dipendere da un mix di fattori quali: il miglioramento della fiducia di imprese e consumatori nei confronti del futuro, una serie di riforme strutturali che rimuovano ostacoli come l’eccesso di burocrazia, i tempi lunghi e le zone d’ombra della giustizia, la corruzione e l’utilizzo inefficiente di fondi pubblici nazionali e comunitari, la liberalizzazione dei mercati delle infrastrutture oltre che dei servizi (a partire dall’Rc Auto), una maggiore flessibilità del fattore lavoro (cosa che richiede una revisione della struttura di garanzie così da tutelare il lavoratore e le sue possibilità di accumulare competenze, prima che il posto di lavoro). Tutte cose solo in parte avviate dal governo Renzi che deve cercare di accelerare quanto possibile senza troppo farsi distrarre dai sondaggi elettorali e dai connessi e variabili “umori” di parti della maggioranza e dell’opposizione.
Ma tenere i tassi bassi a lungo, comprimere più o meno artificiosamente il premio per il rischio (ossia il rendimento offerto da azioni e titoli di stato), iniettare liquidità sui mercati, sono tutti modi con cui le banche centrali “comprano tempo”, svolgendo una funzione “politica” al costo di una maggiore efficienza economica. La cosa può star bene quando come ora le condizioni di partenza siano eccessivamente compromesse per lasciar fare al mercato (ancora negli scorsi giorni Alessandro Profumo, presidente di Mps, ricordava come “la migliore (tra le nostre banche, ndr) ha un ritorno sul capitale del 5% con il capitale che costa il 10%” e non c’è bisogno di molto altro per capire che siamo ancora lontani dal raggiungere la famosa luce in fondo al tunnel.
Come pure che esiste un costo per questa “medicina” che tende a salire di pari passo con la durata della somministrazione della medicina stessa. Chi, come i fondi pensione, deve investire in modo prudente a lungo termine per poter offrire una rendita ai suoi sottoscrittori/assicurati, per riuscire a ottenere risultati in un mondo di tassi prossimi a zero deve o spostarsi sul tratto più a lunga scadenza della curva dei tassi (tratto per sua natura più rischioso) o accettare di veder ridotto anno dopo anno il risultato della gestione, ossia la rivalutazione dei versamenti/contributi pensionistici. Se l’economia non dovesse riprendersi in tempi relativamente rapidi (cosa che dipende dal mix di fattori sopra ricordati e da ulteriori esogene come ad esempio l’andamento della crescita mondiale e l’esplodere o meno di nuovi focolai di tensioni geopolitiche, o il mutare del quadro demografico) il rischio concreto è che, “bazooka” o non bazooka, tra qualche decennio gli Italiani, e non solo loro, scopriranno di non avere che pochi spiccioli come pensione.
Col rischio, per non subire un drastico peggioramento del proprio tenore divita, di dover rimanere più a lungo del previsto al lavoro e ingessare ulteriormente il ricambio generazionale che è uno degli ingredienti per mantenere competitiva un’economia. O forse dovrei dire “dovrebbe essere”, perché di ricambio generazionale in Italia se ne vede poco già da troppo tempo, così come poco si vede di capacità di sfruttare e non subire l’innovazione tecnologica oppure di spostare la produzione italiana, industriale e non, lungo la catena del valore. Perché se continueremo a cercare di competere solo sul costo del lavoro con paesi come la Cina non ci sarà partita ancora per molti decenni, con buona pace di Draghi. Sempre ammesso, poi, che la Germania non si incarichi già dalla prossima settimana di raggelare le speranze dei mercati mettendosi nuovamente di traverso a ogni ipotesi di ulteriori misure espansive da parte della Bce, cosa su cui più di un analista sembra purtroppo pronto a scommettere.