Manduria – Italia: la cronaca attraverso lo sguardo di un vigile del fuoco
Mio padre è un capo reparto dei Vigili del Fuoco ed ha preso parte a qualunque tipo di emergenza questo paese abbia dovuto affrontare negli ultimi quarant'anni: terremoti, alluvioni, frane, incidenti, emergenze umanitarie e tutto quanto richieda la presenza di un vigile del fuoco. Lo scorso sabato è stato urgentemente convocato a Manduria per assumere il ruolo di Responsabile della Sezione Operativa di Avellino, che conta nove unità. Nel giro di pochissimi minuti, ha fatto la valigia ed è partito, come sempre. Sono giorni che penso di chiamarlo per farmi raccontare quello che sta succedendo lì, sono giorni che alle mie orecchie arrivano voci insistenti che parlano di possibili epidemie, di emergenza sicurezza, di situazione fuori controllo, di tafferugli e fughe nelle notte. So per esperienza che non esiste un'obiettività di giudizio di fronte a tutto questo: molti politici cercano di utilizzare l'evento per attaccare la controparte, diversi giornali e telegiornali scelgono un approccio allarmistico, gli abitanti della zona reagiscono con spavento, spesso innescando la dinamica del "noi contro di voi" che nulla risolve e peggiora soltanto la situazione. So, insomma, che non è proprio possibile raccontare quello che accade partendo da un punto di vista neutro. Ed è per questo che ho deciso di non farlo.
Ieri ho parlato con mio padre. Gli ho chiesto di raccontarmi tutto: come hanno lavorato i Vigili del Fuoco, che cosa succede ogni giorno a Manduria, chi sono le persone che arrivano al campo e come trascorrono le loro giornate. Gli ho chiesto di dirmi cosa pensa di ciò che accade sotto i suoi occhi, di come si sente, di quali voci si raccolgono in giro per la tendopoli. Non potevo "intervistare mio padre", né potevo riportare le cose che ho appreso senza includere la fortissima componente emotiva che permea ogni aspetto del lavoro di un vigile del fuoco, ed ecco perché ho scelto di raccontare Manduria così come lui l'ha raccontata a me.
Cominciamo con una considerazione tanto semplice quanto sottostimata: Manduria non è Lampedusa. Le due situazioni non hanno nulla a che vedere l'una con l'altra, non sono neanche lontanamente paragonabili. A Manduria esiste un campo organizzato e funzionale, sia nell'accoglienza dei nuovi arrivati che nell'organizzazione delle partenze, a Lampedusa si assiste a scene da dopoguerra, con gli operatori ormai stremati da un'emergenza che non riescono a gestire, e gli abitanti, storicamente molto accoglienti e premurosi nei confronti dei migranti, che non sanno più come conciliare la naturale propensione alla solidarietà con l'oggettiva considerazione che l'isola è un colabrodo, un pezzo di terra in mezzo al mare sopraffatto dal caos. A Manduria le cose stanno diversamente, e le strette al cuore arrivano per altre ragioni. Non esiste alcuna emergenza, né sanitaria, né di sicurezza. Esiste un'emergenza "umana" però, questo sì.
Il campo di Manduria è stato allestito in ogni suo aspetto dai Vigili del Fuoco, la Polizia Municipale si occupa dell'ordine pubblico, Polizia e Carabinieri si curano dei trasferimenti e della sicurezza, la Protezione Civile non è presente a nessun livello. La zona prescelta per l'allestimento della tendopoli è altamente strategica, si tratta del vecchio aeroporto militare che si trova sulla provinciale che collega Manduria a Oria, completamente isolato e recintato. Le tende sono state montate in tempi record, sono abbastanza accoglienti ed arredate con lo stretto indispensabile. I Vigili del Fuoco avrebbero dovuto poter utilizzare l'intera zona aeroportuale ma, purtroppo, è stato concesso loro solo un terzo della struttura, per cui la tendopoli -al massimo del suo potenziale- potrà arrivare ad ospitare fino a 4.000 persone o poco meno. Al momento, i migranti presenti nel campo sono circa 1.300, ma sono previsti altri arrivi nel corso dei prossimi giorni.
Quando ho chiesto a mio padre di raccontarmi chi sono le persone che arrivano, cosa chiedono e come vivono nel campo, lui mi ha risposto : "Sono ragazzi, tutti giovani, tutti sanissimi. Qualcuno è spaventato, hanno paura di essere considerati dei delinquenti, di essere maltrattati, di essere rispediti indietro. Hanno tutti tra i diciotto e i trent'anni, molti hanno un'istruzione superiore e parlano correttamente italiano e francese. Chiedono di lavarsi, di caricare il telefono, qualche sigaretta… Non sono delinquenti. Sono quasi tutti tunisini e marocchini. Vivono in mezzo a noi, aspettando che succeda qualcosa. Erano venuti qui per vivere e sono stati rinchiusi in un recinto. Si sentono in gabbia, non capiscono perché debbano starsene zitti e buoni qui, in mezzo al nulla, costretti a stare tutto il giorno senza far niente, senza sapere se e quando verrà loro concesso di raggiungere le destinazioni che si sono prefissi. Quasi tutti hanno qualcuno da raggiungere in Francia o in Germania. A restare in Italia non ci pensano proprio".
Per i giovani migranti, le giornate al campo scorrono lente e inoperose. I ragazzi che parlano italiano provano ad informarsi su cosa li aspetta, si domandano perché siano stati rinchiusi a tempo indeterminato, quanto dovranno aspettare… Ma sembrano timorosi, hanno paura di chiedere troppo, ringraziano di continuo e non alzano mai la voce. Certo, la presenza di qualche piccolo delinquente non è da escludere, tre persone sono già state arrestate perché hanno fatto rientro in Italia dopo un'espulsione legata a piccoli reati, ma la stragrande maggioranza vuole solo l'opportunità di ricominciare a vivere. Eppure la gente intorno ha paura. Le città limitrofe hanno cominciato ad organizzare delle ronde in pieno stile "padano" per tenere sotto controllo le strade. Ma i migranti non scappano dal campo con lo scopo di delinquere. Scappano perché sono giorni che mangiano, si lavano e aspettano. Sono stanchi, nervosi, si sentono sotto pressione, hanno paura di essere rispediti indietro, vogliono ricongiungersi alle famiglie… I più giovani vogliono solo uscire, andare a divertirsi in paese, come ogni ventenne che si rispetti. La maggior parte di loro viene riportata al campo dalla polizia o dai "rondisti", alcuni tornano spontaneamente dopo aver fatto un giro nei dintorni. Non si tratta di fughe criminali, se vogliamo considerarle "evasioni", allora dovremmo dire che sono stati incarcerati preventivamente, e non è questa la situazione. Giusto? Sono nervosi, preoccupati dall'ostilità della gente e, in molti casi, preoccupati delle azioni che potrebbero compiere le poche teste calde che si annidano tra loro.
Mentre mio padre mi raccontava tutto questo, non ho potuto fare a meno di ricordare le foto dei migranti italiani che arrivavano ad Ellis Island, New York, fino ad appena qualche decennio fa. Molti erano italiani, giovani, pieni di speranze, sfuggiti ad una condizione di miseria, come questi ragazzi. Eppure, tra gli americani, c'era sempre il sospetto che si trattasse di un'orda di delinquenti, sbarcati con l'unico obiettivo di mettere a ferro e fuoco la città. E il risultato di tutta questa paura, di tutta questa diffidenza, era soltanto l'acuirsi delle già innumerevoli sofferenze patite dai migranti, trattati pregiudizialmente come feccia e non come essere umani spaventati, preoccupati futuro, desiderosi di riabbracciare parenti e volti amici.
Ho chiesto a mio padre delle fughe di cui tanto si parla (un'abitante di Manduria, ai microfoni de "La Stampa", ha definito il campo: "centro di fuga permanente"), giacché proprio in queste ultime ore si è saputo di qualche migrante che è riuscito a raggiungere Torino, con la speranza di poter attraversare il confine verso Francia, e lui mi ha risposto testualmente: "Sono ragazzi, sono venuti qui per vivere ed hanno trovato un recinto. Si sono fatti rinchiudere senza dire niente, senza replicare. Molti di loro sono in viaggio da settimane. Qualcuno ha provato a chiedere spiegazioni, ma non ne ricevono, gli viene solo detto ‘aspettate', ‘domani risolviamo'… Ma sono stanchi, vogliono raggiungere gli amici, i parenti, non vogliono fare nulla di male. Sono dei ragazzi normalissimi, tifano Milan, Inter, migrano da soli, si sono lasciati tutto alle spalle, ed ora vengono trattati con distacco e diffidenza. Hanno paura, passano da un campo all'altro sapendo che la maggior parte di loro verrà rispedita indietro senza troppi complimenti. Che dovrebbero fare? È normale che provino a scappare. Ma molti di loro vengono subito presi e riportati qui".
Stando alle informazioni di cui mio padre è in possesso e alle dichiarazioni rilasciate da alcuni funzionari presenti a Manduria, i finanziamenti per l'allestimento del campo sembrano arrivare pressoché esclusivamente dalla comunità europea, si parla di circa 25/30 milioni di euro. Nei prossimi giorni, molti altri campi saranno allestiti lungo tutta la penisola. La prossima tappa per mio padre sarà il campo di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, allestito per ospitare circa 800 persone. Anche in questo caso, la struttura ospitante è di tipo militare, l’ex caserma Andolfato, ma questo potrebbe essere solo il primo di diversi campi; si stanno valutando altre possibili aree del beneventano, dell'avellinese e del salernitano. L'area partenopea, per il momento, è stata esclusa per via dell'incipiente arrivo di una nuova emergenza rifiuti.
Alla fine della nostra chiacchierata, non ho potuto fare a meno di chiedere a mio padre come si sentisse, quali fossero i suoi sentimenti e se la stanchezza avesse cominciato a prendere il sopravvento. Mi ha risposto: "Ci sono abituato. Siamo qui da cinque giorni ed è normale che la stanchezza cominci a farsi sentire, ma non è quello che mi preoccupa. È che non è piacevole stare qui, respirare quest'atmosfera di tensione e rassegnazione. Vedere ragazzi così giovani in fuga, costretti a mille peripezie solo per aver avuto la ‘sfacciataggine' di sperare in una vita normale. Non escludo la presenza di qualche testa calda, ma per la stragrande maggioranza si tratta di bravi ragazzi. Certo, ormai ho una certa età, le emozioni diventano sempre più ingombranti. C'è un limite a quello che posso sopportare, e vedere questa folla di ragazzi che non chiede niente, mentre intorno si respira solo ostilità e pregiudizio, fa male anche ad uno del mestiere come me".
Mio padre si chiama Costantino Coluccino, lavora come vigile del fuoco da quasi quarant'anni. Attraverso i suoi occhi ho vissuto molte delle tragedie che hanno colpito il nostro paese, ultimo in ordine di tempo: il terremoto dell'Aquila. In quell'occasione ascoltai i suoi racconti, in gran parte strazianti, ascoltai la sua indignazione per come erano state costruite le case aquilane, la rabbia generata dalla consapevolezza che le cose sarebbero potute andare diversamente (se si fossero seguite le regole, se la logica del denaro non avesse prevalso, come sempre, su quella della sicurezza), lo vidi commuoversi al ricordo delle operazioni di recupero dei giovani che erano morti nel crollo dello studentato, eppure -stavolta- ho sentito che c'era qualcos'altro che lo turbava nel profondo. Quando si parla di terremoti, alluvioni, frane, anche nel caso in cui -come all'Aquila- siano riscontrabili delle precise responsabilità, ci si trova sempre e comunque di fronte ad un avvenimento "fatale", che -certo- poteva essere evitato, poteva essere "ridimensionato" nella sua tragicità, ma è pur sempre qualcosa che, una volta accaduta, non lascia troppo spazio ai "se". Inoltre, lo sforzo di solidarietà è immediato, palpabile, ed anche se non dura molto, ci si sente tutti parte della stessa tragedia, e il calore della gente fa davvero la differenza. In quei casi, tutto quello che resta da fare è lavorare, per limitare i disagi e fare in modo che la storia non si ripeta. Anche nel caso dei migranti di Manduria, la solidarietà, il muto soccorso, ed un atteggiamento di accoglienza ed apertura potrebbero fare tanto, potrebbero cambiare davvero il volto dell'emergenza, invece è quasi come se queste persone non venissero considerate delle vittime, quali sono, ma potenziali carnefici in attesa dell'apertura delle gabbie.
Ha vinto la paura, ha vinto l'allarmismo, hanno vinto le strategie politiche che puntano a far apparire incompetente questo o quell'avversario raccontando di una "situazione insostenibile", di rischi per la salute e la sicurezza… E a perderci sono tutte le migliaia di ragazzi che scappano dalla miseria, che vengono spediti qua e là, rinchiusi in qualche campo e costretti ad attendere dio solo sa cosa con gli occhi dimessi di chi teme che anche solo un piccolo gesto di nervosismo potrebbe bastare ad infrangere per sempre il sogno di una vita normale.
Credo sia questo che mio padre non riesce a sopportare: il trionfo del terrore e dell'ostilità sulla nostra storica vocazione all'accoglienza, alla solidarietà. E, sinceramente, non riesco a sopportarlo neanch'io.