Mahmoud Sarsak, stella del calcio palestinese, detenuto senza accuse: rischia la vita
Mentre l'Europa è anestetizzata dal grande carrozzone mediatico che fa da sfondo a uno dei campionati di calcio più contestati della storia, in Palestina-Israele si consuma l'ennesima ingiustizia. Oltre mille i prigionieri palestinesi che, da quasi tre mesi, sono in sciopero della fame per protestare contro i criteri e le modalità di detenzione nelle carceri israeliane. Lo scorso 14 maggio, Israele aveva promesso un sostanziale miglioramento delle condizioni carcerarie ma quelle promesse – fino ad oggi – si sono rivelate assolutamente vane e, anzi, sono state più volte disattese. Molti i detenuti che continuano a scioperare e, tra quelli la cui salute è ormai prossima al definitivo cedimento, c'è Mahmoud Al Sarsak: venticinque anni, talentuoso calciatore palestinese, detenuto da oltre tre anni senza che contro di lui sia stata mossa alcuna accusa ufficiale. Si tratta di una delle oltre trecento "detenzioni amministrative" di cui lo stato di Israele si serve per incarcerare donne e uomini a tempo indeterminato: senza accuse né processo. Ed è proprio contro questa insopportabile abitudine – contraria a qualunque legge nazionale e internazionale, per non parlare della Dichiarazione Universale dei diritti dell'Uomo, sempre evocata e mai rispettata – che i detenuti palestinesi hanno cominciato il loro sciopero della fame, ottantacinque giorni fa.
Ma la "detenzione amministrativa" non è l'unica stortura nelle abitudini israeliane rispetto alle carcerazioni di natura politica. Fanno parte del pacchetto anti-umanitario anche l'isolamento, le violenze fisiche e psicologiche, l'impossibilità di incontrare i propri familiari, il tutto in esplicito contrasto con la Quarta Convenzione di Ginevra. Ora, se tutto quanto accade in Palestina-Israele si verificasse in un ricco stato arabo, qualcuno avrebbe già trovato ragioni sufficienti a giustificare l'esportazione (sempre intollerabile) di un po' di sana democrazia ma – siccome parliamo di Israele – persino una tirata d'orecchi sembra troppo invasiva della sovranità nazionale. Qualche timido e sporadico appello, categoricamente ignorato, è il massimo di cui la comunità internazionale si mostra capace . Nessuna sanzione, nessuna decisa presa di posizione. Niente. Persino ora che il giovane Al Sarsak rischia di morire dopo aver scioperato per quasi tre mesi contro una detenzione durata tre anni e a giustificazione della quale non è stata formulata nessun accusa, tutto – dolorosamente – tace.
Mahmoud Al Sarsak è un calciatore della nazionale palestinese (nazionale non riconosciuta così come privi di riconoscimento sono lo stato palestinese e il suo popolo) cresciuto in un campo profughi a sud a Gaza, ha imparato a giocare a calcio sotto i bombardamenti e le violenze pressoché quotidiane cui è soggetta quella che è stata definita la prigione a cielo aperto più grande del mondo. Chi lo ha visto giocare lo definisce un indiscusso talento, un ragazzo probabilmente destinato a una grande carriera. Peccato che il suo non sia un team stellare, peccato che non ci siano milioni di fan pronti a sborsare centinaia di euro per vederlo giocare, peccato che la sua detenzione non faccia notizia alcuna. A quanto pare, nonostante sia campione del gioco che – quasi ovunque nel mondo – rende alcuni uomini prossimi al mito, Sarsak è un signor nessuno per cui non vale la pena spendersi nemmeno in un j'accuse. Fosse capitato altrove, il mondo del calcio sarebbe insorto ma – a quanto pare – se le nazionali non sono riconosciute neppure gli esseri umani che le compongono hanno diritto d'esistenza. Nessuno scandalo, quindi, se muoiono nel silenzio.
Nel 2009, Sarsak avrebbe dovuto unirsi ai compagni di squadra in Cisgiordania, e invece è stato arrestato senza alcuna ragione. Da allora, ogni sei mesi, la detenzione è stata confermata pur senza alcuna nuova prova a suo carico, pur senza il configurarsi del benché minimo reato, pur senza che un seppur blando sospetto trovasse vaghi riscontri. Dal 2009, Sarsak non ha mai più messo piede fuori dalla prigione di Ramleh. Eppure il giovane calciatore non è legato ad alcun gruppo, partito e fazione politica, il suo unico obiettivo era quello di giocare a calcio, ed era bravo, forse troppo, tanto bravo da poter aspirare a giocare nelle rose dei team internazionali e – magari – arrivare a portare su palcoscenici alt(r)i le ragioni del suo popolo. Sarsak si sentiva così tranquillo della propria posizione da decidere di dirigersi verso i valichi controllati dai soldati israeliani nell'assoluta certezza che non ci sarebbero stati impedimenti alla sua uscita dalla striscia. L'impedimento, invece, dura da tre anni, e solo oggi Mahmoud Al Sarsak ha lasciato la cella in cui è stato richiuso senza ragione. Peccato che l'abbia lasciata solo per essere portato d'urgenza in ospedale, in serio pericolo di vita. Lo sciopero della fame, che gli ha portato via 50 chili ma ne ha conservato intatta la dignità di uomo pronto a lottare per i propri diritti, lo ha avvicinato pericolosamente alla morte, tanto che sono in molti a disperare in un pieno recupero.
Questo è quanto è accaduto nelle ultime ore in Palestina-Israele; e accade nello stesso momento in cui le principali testate mondiali si affrettano a titolare entusiaste riguardo la riapertura del dialogo annunciata dal premier israeliano Netanyahu. Ma dimenticano di dire che – al di là del trattamento riservato ai prigionieri politici, al di là dei quotidiani ferimenti e assassini perpetrati nella Striscia – il governo israeliano ha appena avviato l'ennesima espansione coloniale nella West Bank: in barba a ogni trattato, risoluzione, concordato e facendosi beffe delle molteplici sentenze di condanna rispetto all'avanzamento delle colonie. Insomma: se, a parole, Israele si dichiara pronta a contrattare con la Palestina, nei fatti ne nega con ostinata determinazione il diritto all'esistenza, nega il diritto alla terra, all'acqua, alla vita del popolo palestinese e contravviene impunemente alle innumerevoli disposizioni internazionali che ne impongono il ritiro all'interno dei confini del 1967. Quel che molti fingono di dimenticare, infatti, è che la Corte Internazionale di Giustizia si è più volte espressa circa l'illegalità degli insediamenti israeliani (che violano la Quarta Convenzione di Ginevra), che lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale configura l'azione israeliana – senza nessun possibile fraintendimento – come "crimine di guerra" (tant'è vero che Israele si è ben guardata dal ratificare lo statuto), che persino il consiglio di sicurezza e l'assemblea generale dell'ONU hanno esplicitamente condannato l'occupazione e che – nonostante tutto questo – Israele fa spallucce e tira dritto, senza che nulla si pari a sbarrarle la strada se non la debolissima voce del popolo palestinese.