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Il mostro di Marsala, storia delle tre bimbe assassinate nel 1971

Antonella Valenti, 9 anni, viene trovata semicarbonizzata alla periferia di Marsala. È il 1971. Pochi giorni dopo vengono trovate in un pozzo le sorelline Ninfa e Virginia Marchese, scomparse insieme alla bimba. Sono morte di fame. Della strage verrò accusato lo zio di Antonella e in seguito condannato nel corso di un processo, riaperto nel 1989 da Paolo Borsellino, carico di rivelazioni e nuove piste che proiettano, sullo sfondo, l’ombra della mafia.
A cura di Angela Marino
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Tre bambine rapite e uccise, un bruto, uno studioso, una confessione troppe volte ritrattata sullo sfondo di una Sicilia omertosa e retriva che sembra uscita dalla penna di Sciascia. Nel giallo di Marsala ci sono tre vittime, Antonella Valenti (nove anni) e le sorelline Ninfa  e Virginia Marchesi (sette e cinque anni) e un assassino, lo zio Michele Vinci. Nasce come una storia “semplice” di pauroso degrado, poi si definisce, cambia completamente contorni tanto da sfiorare un contorto intreccio tra mafia, vendetta, segreti familiari, perversioni. Datato 1971, il caso viene addirittura riaperto nel 1989 dal magistrato Paolo Borsellino. Verrà richiuso poi per mancanza di prove mentre il “mostro” sconterà 28 anni di reclusione.

La scomparsa delle bimbe di Marsala

Il pomeriggio del 21 ottobre 1971 la piccola Antonella Valenti esce di casa per accompagnare a scuola la sorellina Liliana, cinque anni. La piccola comincia le lezioni alle 13, perché a scuola le classi devono alternarsi a turno, le aule sono poche. Con lei ci sono le sorelline Marchese. Passano le ore ma le bimbe a casa non fanno ritorno e Vito Impicché, il nonno di Antonella a cui la piccola è stata affidata dai genitori, emigrati in Germania, comincia a preoccuparsi e dà l’allarme. Anche la famiglia delle sorelline è in stato di agitazione. Scattano le indagini alla guida del giudice Cesare Terranova, quello del processo contro i Corleonesi, a Bari. Vengono battute le campagne alla periferia di Marsala, i carabinieri cercano le piccole ovunque, ma di loro non c'è traccia. Intanto una persona si fa avanti per segnalare una circostanza sospetta.

L'avvistamento

Hans Hoffmann, benzinaio tedesco, racconta di aver visto due bambine a bordo di Fiat Cinquecento guidata da uno sconosciuto nel giorno della scomparsa. Sedute sui sedili posteriori le piccole sarebbero apparse in quei pochi istanti in cui l'auto sfrecciava mentre picchiavano le mani contro il finestrino, come a chiedere aiuto. Il magistrato non fa in tempo a verificare che, repentina, arriva un’altra testimonianza. Si fa avanti il sedicente automobilista della Cinquecento, Giuseppe Li Mandri. Il testimone riferisce ai carabinieri di essere lui l’uomo misterioso alla guida dell’auto e che sul sedile posteriore sarebbe stato seduto suo figlio. Il bambino, secondo Li Mandri, protestava perché non aveva voglia di andare a trovare un parente in ospedale, dove erano diretti. Interrogata dagli inquirenti, la moglie del testimone, però, dirà che non c’era nessun parente in ospedale. La storia finisce così.

Spunta il corpicino di Antonella: è carbonizzato

A cinque giorni dalla scomparsa, la mattina del 26 ottobre, Ignazio Passalacqua, fa una macabra scoperta. A pochi passi da una scuola abbandonata in contrada Rakalia, c'è il corpo semicarbonizzato di Antonella, 9 anni. La cittadina a una manciata di chilometri da Trapani è sconvolta, i più atroci timori vengono così confermati. Antonella giace priva di vita in un campo, ha subito una "violenza dirompente" come dirà l‘autopsia, ma non di natura sessuale. Per la piccola Valenti non c'è più speranza, ma forse non tutto è perduto: delle sorelline Marchese, infatti, non c'è alcuna traccia. Intanto, la scena del ritrovamento viene esaminata, poco distante dal corpo della bimba c'è del nastro adesivo utilizzato dall'aguzzino, come appare evidente, per soffocarla. Il nastro da imballaggio proviene dall'azienda cartotecnica di San Giovanni.

La confessione

È il primo un indizio che conduce gli inquirenti verso l'attività commerciale, dove, il caso vuole, lavora Michele Vinci, il marito della sorella della madre della piccola Antonella. Una coincidenza? I dubbi non sussistono a lungo perché contro lo zio della bimba arriva un altro indizio. Una lettera anonima accusa l'allora trentunenne, che viene immediatamente interrogato. Non prova neanche a negare. Vinci confessa di aver rapito la nipotina per soddisfare i suoi istinti e di aver portato con sé anche le piccole Marchese che quel giorno si trovavano con Antonella. Aveva fatto prigioniera la piccola e l'aveva nascosta per quattro giorni in una casa abbandonata, portandole acqua e cibo.

Ritrovati i corpi delle sorelline Marchese

Il 25 ottobre aveva trovato la bambina agonizzante e l’aveva portata nella scuola abbandonata, dove le aveva dato fuoco. A quel punto il magistrato Terranova lo incalza: dove sono Ninfa e Virginia? Dove le ha nascoste? Le bimbe sono morte, giacciono in un pozzo, dice. Ormai indifeso e arrendevole, il "mostro" conduce gli investigatori in contrada Amabalina, dove avrebbe abbandonato le bimbe, vive, per poter restare solo con Antonella. Presente al sopralluogo, oltre al giudice Terranova, c'è anche il colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa. Giunto sul posto segnala un pozzo, ma no, non è quello. Ne indica un altro, però, no, non è neanche quello. Al terzo tentativo i militari scoprono finalmente dove si trovano le sorelline: le ritrovano abbracciate sul fondo di una cisterna, a pochi passi le mutandine di una di loro. E del nastro adesivo.

Il processo a Michele Vinci

Le sorelline sono morte di stenti sul fondo del pozzo, forse. O forse qualcuno le ha calate giù quando erano già morte. Le indagini, intanto, proseguono e il giudice Cesare Terranova diventa un autentico eroe, tanto che il partito comunista lo candida alle elezioni del 1972. Sul racconto di Vinci, però, si addensano alcune ombre. Si profila la presenza di un complice. Gli inquirenti indagano su Giuseppe Guarrato, il proprietario del fondo dove la piccola Antonella era stata tenuta prigioniera. Come può non aver visto nulla? Come può non aver sentito le grida della bimba? L'uomo viene scagionato per mancanza di indizi, ma durante il processo un'altra ipotesi prende piede: quella di un mandante. Proprio durante il dibattimento in aula, Vinci, al quale è stato chiesto il nome di chi ha commissionato il rapimento, esortato dal pubblico presente, grida: "Professor Franco Nania". D'un tratto il mostro appare meno "mostruoso".

Zio Michele: “Mi hanno costretto a rapirle”

Viene dato ordine di cattura nei confronti di Nania, ma succede qualcosa di imprevisto: il maresciallo dei carabinieri Nicotra omette di eseguire l'arresto di Nania, ritenendo infondate le accuse di Vinci. Nania, però, finisce lo stesso in carcere poco dopo mentre si diffonde la voce che abbia organizzato delle sedute spiritiche per evocare Antonella. A complicare ulteriormente un quadro investigativo già nebbioso è la rivelazione di un altro segreto: Vinci dice di essere stato importunato da alcune persone che gli avevano chiesto ripetutamente di rapire Antonella per loro conto e consegnargliela. A che scopo? Secondo l'uomo, alla base, ci sarebbe stata una volontà punitiva nei confronti dei genitori di Antonella, in particolare del padre, Leonardo, emigrato in Germania forse non per lavoro, ma per fuggire a personaggi pericolosi.

L'uomo del bitter

Il Vinci racconta di essere stato avvicinato da un uomo che lo aveva minacciato e gli aveva intimato di rapire la nipotina. Vinci avrebbe avuto un mancamento per lo spavento e questi lo avrebbe quindi portato in un bar dove, per risollevarlo, gli aveva fatto bere un bitter. L'uomo "del bitter" comparirà più volte nei racconti dell'imputato fino ad essere identificato in Antonio De Vita, un altro zio di Antonella. Due zii nella stessa storia non sono un po' troppi? Se lo chiedono gli inquirenti che smontano ben presto queste accuse. Vinci a quel punto fa un'altra rivelazione: Antonella sarebbe stata rapita per punire il padre di non aver voluto essere complice di un sequestro, quello del parlamentare democristiano Salvatore Grillo. Il rapimento sarebbe stato organizzato, sempre secondo il Vinci, per colpire indirettamente la famiglia siciliana dei Salvo, vicina all'onorevole, nell'ambito di una faida mafiosa.  Nel 1978 Michele Vinci viene riconosciuto unico colpevole del triplice omicidio e condannato a 29 anni di reclusione.

Tre morti sospette

Intanto, alcuni personaggi della storia sono scomparsi: Giuseppe Li Mandri, l'uomo della Fiat 500, muore misteriosamente cadendo da un tetto. Ignazio Guarrato, parente di Giuseppe, il proprietario della cava dove veniva tenuta prigioniera la piccola Valenti, muore precipitando in un pozzo in una zona che conosce benissimo. Ignazio, all'epoca dei fatti 18enne, abitava proprio in contrada Amabilina ed era nella posizione di vedere molte cose. Muore improvvisamente senza poter testimoniare. Un'altra morte scandisce la storia. Poco prima della condanna, Vinci rivela di aver scritto una lettera a padre Fedele confessandogli tutto: il religioso muore di infarto proprio mentre Vinci riferisce della lettera.

Il mostro di Marsala a Telefono Giallo

Il 28 dicembre 1988, dalla cella del carcere dove è recluso, Vinci accetta di dire la sua verità ai giornalisti del programma televisivo "Telefono Giallo" di Corrado Augias: Ho preso le bambine – racconta in una lunga interista – è vero, ma non ho ucciso nessuno. Tutto è successo perché mio cognato Valenti non ha voluto darmi ascolto quando gli ho detto di non partire… Era stato organizzato il sequestro dell'onorevole Grillo, ma era fallito perché io non volevo partecipare, e neppure mio cognato Leonardo Valenti. L'aveva organizzato Franco Nania, e minacciò di fare del male a me e a mia moglie. La paura è stata più forte di me… Ci fu una riunione a casa del professore per parlare del sequestro. Non so chi c'era. Io non ci andai perché ero fuori Marsala. Quando tornai a casa, Valenti mi disse che non se ne faceva più niente, che lui non ci stava. Non so se fra di loro è successo altro… Io dovevo prendere solo la Valenti. Sfortunatamente c'erano le altre due bambine. La rivelazione ha una reazione immediata: il giudice Paolo Borsellino riapre il caso. Purtroppo la mancanza di qualsiasi prova porta alla nuova, definitiva, chiusura del caso. Per il sequestro e l'omicidio di Antonella, Ninfa e Virginia l'unico condannato, rimarrà, fino alla fine della pena nel 2002, Paolo Vinci, "il mostro". E se fosse stato veramente, il Vinci, una marionetta di cui altri burattinai hanno tirato i fili? Se fosse stato un capro espiatorio? Nonostante tutti i dubbi, le rivelazioni e le incongruenze palesi, questa tragica storia siciliana è passata come una vicenda di ordinario degrado, una storia "semplice".

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Giornalista dal 2012, scrittrice. Per Fanpage.it mi occupo di cronaca nera nazionale. Ho lavorato al Corriere del Mezzogiorno e in alcuni quotidiani online occupandomi sempre di cronaca. Nel 2014, per Round Robin editore ho scritto il libro reportage sulle ecomafie, ‘C’era una volta il re Fiamma’.
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