A volte è davvero difficile restare calmi, razionali e lucidi di fronte alla follia pura, alla rabbia cieca ed al furore più disumano. Quando qualcuno o qualcosa invade, devasta, calpesta il tuo spazio vitale e fa vacillare l'idea della tua sicurezza costringendoti a convivere con l'angoscia, con la paura. È difficile conservare la ragione di fronte alla violenza senza spiegazioni, di fronte alla morte senza un perché di tre persone, strappate all'affetto dei loro cari in un modo assurdo, spiazzante, lancinante. Sarebbe molto più semplice abbandonarsi alla dolce idea della vendetta. E, in fondo, chi potrebbe biasimarci se condannassimo l'autore di questa follia e tutto ciò che rappresenta, senza alcuna distinzione? Chi potrebbe fermarci dall'idea che ci siano tre cadaveri da riscattare e che non basti punire il colpevole, ma che bisogna mandare un messaggio, riconsiderare le nostre posizioni, mettere dei paletti?
In fondo, sono già in tanti a pensarla così. Legittimamente, per carità. Eppure, non riesco proprio a togliermi dalla mente un'idea. Un pensiero fisso, una resistenza interiore ed una sensazione invadente. Quella di fare implicitamente il gioco dei nostri aguzzini, di chi ci costringe a vivere nella paura, di chi fomenta l'odio, di chi strumentalizza il dolore, di chi cavalca l'indignazione a comando, di chi vuole ostinatamente che le cose che ci dividono siano più di quelle che ci uniscono. E allora, a costo di ricevere insulti, di risultare impopolari o peggio ancora, insensibili e brutali, credo che ci siano cose che non si possono non dire.
Kabobo è un assassino, un folle e deve (deve) essere punito per i crimini che ha commesso. Ma il colore della pelle, la nazionalità, lo status di clandestino non c'entrano nulla, non aggiungono nulla alla gravità della sua colpa. E in uno stato civile la pena la stabiliscono i giudici, non i politici né i cittadini: e secondo diritto, non sotto l'effetto di allucinazioni collettive.
La levata di scudi contro il ministro Kyenge è schifosa. Viscida, vergognosa, indegna di un Paese civile. In che modo il ministro per l'Integrazione debba rispondere di un terribile episodio di cronaca è un mistero. In che modo parole di buonsenso come le sue ("punire i reati indipendentemente dal colore della pelle e dall'origine ma non fomenatre l'odio") possano essere oggetto di critiche è materia per psichiatri più che per politici o giornalisti.
La questione della cittadinanza, per come è in discussione, non c'entra assolutamente nulla. Ma proprio nulla. Zero. Si tratta di garantire la cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia che non hanno ancora raggiunto la maggiore età e che hanno completato un ciclo scolastico (e addirittura con precise garanzie sulla stabilità familiare). Non si tratta di legalizzare i clandestini. Non si tratta di amnistiare i delinquenti (ah, per inciso, solo coscienze già corrotte possono tollerare l'equazione criminale – clandestino).
E, chi pensa che in un regime più rigido (esiste uno più rigido e cieco del nostro?) per quanto riguarda le norme sull'immigrazione, simili situazioni non si sarebbero verificate è semplicemente un cialtrone. Un bugiardo, un impostore, uno che specula sulla sofferenza e sulle lacrime dei familiari delle vittime. Chi prefigura scenari catastrofici se non si "blindano le frontiere", chi spiega che "nessuno è colpevole, nessuno è responsabile", chi blatera di sicurezza solo cavalcando la follia di singoli, in realtà ha tutto l'interesse a fomentare l'odio, a preservare la paura.
Si tratta di scegliere: abbandonarsi al furore cieco, oppure cercare finalmente di vedere con cosa abbiamo a che fare e cosa invece siamo diventati.