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Opinioni

Lotta alla disoccupazione: i lati oscuri del Jobs Act di Renzi

Lo scorso aprile il Presidente del Consiglio disse che la disoccupazione aveva i giorni contati. La riforma del lavoro tra proteste dei sindacati, il fallimento della ‘Garanzia Giovani’ e l’ennesima stangata nei confronti dei freelance.
A cura di Valigia Blu
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Da quando Matteo Renzi ha scalzato Enrico Letta e si è installato a Palazzo Chigi, il Jobs Act è sempre stato presentato come la soluzione per sconfiggere la disoccupazione, sia generale che giovanile (arrivate rispettivamente al 12,6% e al 42,9%), e rimettere in carreggiata il disastrato mercato del lavoro italiano.

Dopo qualche mese di tentennamenti, estenuanti dibattiti sull’articolo 18 e schermaglie tra Renzi e i leader sindacali, lo scorso 8 ottobre doveva essere il giorno in cui #cambiareverso al lavoro. Mentre al Senato, dove era in corso la discussione sul provvedimento blindato dalla fiducia, volavano libri sopra la testa di Pietro Grasso e i “dissidenti” del PD riconoscevano amaramente la loro sconfitta politica, Matteo Renzi stava parlando al vertice sulla disoccupazione giovanile a Milano e incassava le pacche sulle spalle di Angela Merkel e degli altri leader europei.

La cancelliera tedesca, davanti ai colleghi europei, ha riconosciuto che l’Italia “sta facendo un passo importante” con il Jobs Act: “L’Italia sta adottando iniziative molto importanti per combattere la disoccupazione”. Gli elogi sono arrivati anche dal segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria che ha parlato di un provvedimento che “può portare benefici a tutta la popolazione, alimentando la creazione di lavoro e riducendo la disoccupazione”. Il giudizio della Commissione Europea, invece, è stato molto meno positivo: “Se migliorerà il funzionamento del mercato del lavoro dipenderà dal disegno dei necessari decreti attuativi”.

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(Foto via Flickr)

L’approvazione al Senato è stato un grande successo politico per Matteo Renzi – un successo, però, macchiato dalla bagarre che è scoppiata in Senato. Secondo un retroscena, Renzi si sarebbe lamentato con i suoi collaboratori in questi termini: “Per il Jobs Act abbiamo avuto i complimenti di tutta Europa. Avete sentito quello che ha detto la Merkel? Gli unici che non si rendono conto della situazione sono i senatori del Pd, o meglio i ribelli del Pd. Sono fuori dal mondo”.

A più di un mese di distanza da quella giornata il Jobs Act è fermo alla Camera, lo scontro tra Renzi e i sindacati si è inasprito parecchio e le manganellate della polizia contro i lavoratori delle acciaierie di Terni dello scorso 29 ottobre – compresa la rabbiosa reazione del segretario della Fiom Maurizio Landini – hanno indubbiamente segnato un cambio di passo importante.

Alla fine di ottobre la Fiom ha proclamato uno sciopero generale contro “le misure contenute nel ‘Jobs Act’ e per rivendicare scelte diverse di politica economica e industriale”, e il 14 novembre scenderà in piazza a Milano. Lo stesso giorno movimenti sociali, precari e studenti manifesteranno in diverse città con l’iniziativa #scioperosociale. E anche la Cgil (che il 25 ottobre dice di aver portato in piazza San Giovanni un milione di persone) ha annunciato uno sciopero generale di otto ore per il prossimo 5 dicembre. In vista di questa forte agitazione sindacale, dunque, rimane una domanda: qual è la situazione sul fronte del lavoro a nove mesi dall’insediamento di Matteo Renzi alla Presidenza del Consiglio?

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(Renzi incontra i sindacati. Foto via Flickr)

ASPETTANDO IL JOBS ACT

Ad oggi il Jobs Act “completo” praticamente non esiste: ci solo provvedimenti singoli (come il decreto Poletti, o “prima parte del Jobs Act”, sui contratti a termine) e una delega molto ampia, quasi tutta in bianco e con indicazioni piuttosto generiche che deve passare alla Camera ed essere attuata dal governo, sempre che nel frattempo il panorama politico rimanga immutato.

Al netto degli annunci e dei countdown, tra le poche misure concrete sul lavoro c’è appunto il decreto Poletti, approvato lo scorso marzo e convertito in legge ad aprile. La maggiore “novità” contenuta nella norma è l’acausalità dei contratti a termine (ossia: non è più necessario fornire una ragione per l’assunzione) e la loro prorogabilità per tre anni. Queste previsioni hanno sollevato molte critiche, legate soprattutto al possibile aumento della precarietà in un mercato del lavoro già spaventosamente precarizzato.

Matteo Renzi è passato sopra a queste critiche e, all’inizio di settembre, ha descritto il decreto come un grande successo che “ha portato dei risultati verificabili e immediati con un aumento dell’occupazione.” Quando poi all’inizio di novembre sono usciti gli ultimi dati dell’Istat sul mercato del lavoro, che registrano l’aumento sia di disoccupazione che occupazione, alcuni esponenti del governo hanno twittato la loro soddisfazione.

Leggendo bene i numeri, però, c’è molto poco di cui essere soddisfatti. Anzitutto, come ha rilevato questo post di Marta Fana sul suo Tumblr, “l’aumento del numero di occupati non indica automaticamente che le condizioni del mercato del lavoro migliorano”. Anzi: basta fare riferimento ad altri dati per vedere come il mercato del lavoro sia ancora in estrema sofferenza.

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(La tabella dell'Istat sui dati destagionalizzati di settembre 2014)

Proprio ieri l’Inps ha comunicato che a ottobre 2014 le imprese hanno chiesto 118 milioni di ore di cassa integrazione, con un aumento del 19.3% rispetto a ottobre 2013. Nei dieci mesi del 2014, inoltre, si è già raggiunti quota 937 milioni di ore, e con ogni probabilità alla fine dell'anno si sforerà quota un miliardo.

I lavoratori, inoltre, continuano a non vedere nessun miglioramento delle proprie condizioni occupazionali:

ne è conferma – scrive ancora Marta Fana – l’andamento delle retribuzioni orarie e per dipendente che rispetto all’inizio dell’anno frenano, dimuinuendo dello 0.3% rispetto a gennaio 2014. Non migliora neppure il potere d’acquisto delle famiglie (nonostante la scarsa inflazione) che rispetto a un anno fa diminuisce ancora dell’1.5%.

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Tornando sull’aumento dell’occupazione, il Sole 24 Ore scrive che questo miglioramento è “dovuto essenzialmente alla diminuzione del numero di inattivi (cioè persone che da scoraggiate si sono rimesse a cercare un impiego e lo hanno trovato, seppur precario e bassa qualità)”. E sulla qualità dell’impiego si è soffermata anche la segretaria confederale della Cgil, Serena Sorrentino, facendo notare che

più di 400mila attivazioni che si sono registrate nell’ultimo trimestre sono durate solo un giorno e che oltre 900 mila contratti sono durati meno di un mese. Il che porta a dire che, proprio per questo, l’intervento contenuto nel Jobs Act che guarda alla riforma del mercato del lavoro dovrebbe cancellare quelle forme contrattuali che rendono possibile un’occupazione così precaria.

I dati del Ministero del Lavoro, inoltre, confermano la tendenza dell'aumento del lavoro precario: nel secondo trimestre del 2014 il 70% circa delle assunzioni è stato formalizzato con contratti a termine, mentre solo il 15.2% con contratti a tempo indeterminato.

Sul decreto Poletti, insomma, Renzi potrebbe aver cantato vittoria troppo presto. Come aveva detto l’economista Tito Boeri, stiamo pur sempre parlando di un incremento – tutt’altro che rivoluzionario – dell’“occupazione temporanea, precaria, che abbassa la produttività media e che è destinata a sparire rapidamente, appena i momentanei incrementi di domanda che hanno indotto le aziende a prorogare i contratti verranno meno”.

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(Foto via Flickr)

Sulla seconda parte del Jobs Act, che invece dovrebbe essere quello vero e proprio, per ora ci sono solo dei principi e degli indirizzi che dovranno concretizzarsi nei mesi successivi. Secondo il giuslavorista Piergiovanni Alleva questi indirizzi sono comunque “molto negativi” e tenderebbero alla creazione di un “lavoro che sarà usa e getta, non tutelato, non tutelabile e pesantemente sottopagato, anche rispetto ad adesso”.

Tra le proposte critiche che ha evidenziato Alleva ci sono il demansionamento dei lavoratori “in caso di processi di riorganizzazione aziendale” (previsione che il giuslavorista definisce senza mezzi termini “mobbing libero”), i licenziamenti più facili e la “forte restrizione degli ammortizzatori sociali, che smentisce tutto il discorso della ‘flexsecurity’.”

Uno dei punti forti del provvedimento, infatti, dovrebbe essere nuova indennità di disoccupazione (chiamata "Naspi") che viene erroneamente descritta come “universale". In realtà, come ha scritto l’Associazione 20 Maggio in un report molto dettagliato sui “veri effetti del Jobs Act sui precari”,

L’universalizzazione degli ammortizzatori sociali sarà estesa solo ad altri 46.577 collaboratori coordinati e continuativi (quelli con più di 3 mesi di contributi versati). Se dovesse prevalere la nostra teoria che i contratti a progetto verranno trasformati dalle aziende in co.co.co. allora la platea che potrebbe accedere all’Aspi, in aggiunta a quella attuale, crescerebbe fino a 317.656 (46.577 co.co.co. + 267.079 co.pro.). Rimangono esclusi circa trecentomila lavoratori parasubordinati e a partita iva iscritti alla gestione separata, i lavoratori autonomi iscritti all’ex Enpals e tutti i liberi professionisti.

Alleva, dal canto suo, sottolinea anche un altro punto critico della Naspi: “È previsto il criterio della proporzionalità tra il lavoro che hai svolto e l’indennità che prendi. Come dire, quanto più hai lavorato in passato, tanto più lunga sarà l’indennità di disoccupazione che prendi. Questo è un criterio assolutamente antisociale, contrario agli interessi dei precari di cui Renzi parla tanto”.

In effetti, nel videomessaggio dello scorso 19 settembre rivolto ai sindacati Renzi si era idealmente rivolto a “Marta,” precaria di 28 anni, per garantirle che non rimarrà una cittadina di serie B.

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(Nel video: la risposta della “precaria Marta” a Matteo Renzi in vista dello “sciopero sociale” del 14 novembre.)

A giudizio di Alleva, tuttavia, i giovani non dovranno aspettarsi assolutamente nulla da questo Jobs Act: “I contratti precari resteranno, altrimenti il decreto Poletti non lo facevano. In secondo luogo c’è solo il vecchio discorso della decontribuzione dei premi per chi trasforma i contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. Ma con i contratti a termine acausali il datore di lavoro non ha alcun interesse a farlo: prende semplicemente un altro lavoratore con il contratto a termine. Non vedo nessun meccanismo di stabilizzazione”.

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(Foto via Flickr)

GARANZIA GIOVANI: STORIA DI UN FALLIMENTO ANNUNCIATO

Per contrastare la disoccupazione giovanile, lo scorso primo maggio l’Italia aveva fatto partire Garanzia Giovani – un’iniziativa europea finanziata per un miliardo e mezzo di euro che dovrebbe favorire l’inserimento lavorativo dei giovani tra i 18 e i 29 anni. Il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti si era mostrato entusiasta di questo programma, definendolo una “novità straordinaria” e addirittura il “prototipo delle nostre politiche attive per il lavoro”.

A qualche mese di distanza, come ha scritto Dario Di Vico sul Corriere delle Sera, “ci stiamo pericolosamente avvicinando a un clamoroso flop”. Il report ufficiale aggiornato al 9 ottobre mostra come i giovani registrati siano 237mila, di cui solo 53.800 “presi in carico e profilati”. Se però si considera che i Neet under 29 in Italia, secondo i dati dell’Istat, superino i 2 milioni di persone, le adesioni rappresentano una quota irrisoria della platea potenziale.

Un discorso analogo si può fare per le “occasioni di lavoro” pubblicate sul portale. Ad oggi sono poco più di 17mila ma, come ha detto il giuslavorista Michele Tiraboschi, “basta scavare un po’ più a fondo per accorgersi che il sito governativo non fa altro che rimbalzare offerte presenti su altri siti”.

Se poi si va a vedere la tipologia di lavori disponibili, il quadro che ne esce non potrebbe essere più deprimente. Questa, ad esempio, è una grottesca lista delle “offerte” compilata da Il Messaggero:

Offresi stage per parrucchiera purché «esperta nella colorazione, taglio e acconciatura». Cercasi portiere di notte in un albergo a Cortina d'Ampezzo per le due settimane a cavallo tra Natale Capodanno, ma «non si offre alloggio». Si seleziona un addetto ai servizi di igienizzazione di una banca: orario di lavoro dalle 16 alle 16,45 dal lunedì al venerdì. E poi c'è chi cerca una segretaria amministrativa full time, di età non superiore a 26 anni, diplomata, per uno stage a 500 euro al mese. Oppure chi ha bisogno di un ingegnere, con laurea magistrale in economia/ statistica/ingegneria gestionale che conosca molto bene l'inglese e abbia esperienza nel settore di almeno 2-3 anni per un contratto di sei mesi full time. Chi necessita di commessi al banco di macelleria con padronanza di inglese, francese e tedesco, o di analisti programmatori con esperienza decennale.

In tutto ciò ancora non si sa ancora quanti giovani abbiano iniziato a lavorare o fare uno stage grazie alla Garanzia Giovani. “Il flusso di dati”, spiegano dal Ministero del Lavoro, “tra centri per l'impiego provinciali e portale nazionale non arriva a questi dettagli, ci stiamo lavorando su, entro fine novembre troveremo una soluzione”.

Le distanze dai numeri ventilati da Poletti – “900mila giovani che nell’arco di 24 mesi riceveranno un’opportunità di inserimento” – rimangono dunque siderali. Il motivo delle difficoltà di questo programma risiederebbe principalmente nel fatto, come ha scritto Michele Azzu su L’Espresso, che “la competenza dell’attuazione del programma sta nelle mani delle regioni,” che fanno un po’ come pare loro (alcune hanno presentato anche due o tre progetti diversi).

Il rischio è che tutto si perda “nel marasma burocratico dei tanti livelli amministrativi che intercorrono tra ministero e regioni italiane” e che, in definitiva, si buttino dalla finestra una marea di soldi.

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(Renzi in visita alla sede di Twitter. Foto via Flickr)

NEL GARAGE DI RENZI NON C’È POSTO PER I FREELANCE

E se sulla Garanzia Giovani il governo non sta dicendo praticamente più nulla, sul lato del lavoro indipendente (autonomi, freelance, atipici, partite Iva, ecc.) la situazione è, se possibile, ancora peggiore.

Negli ultimi anni questo segmento del mondo del lavoro è cambiato moltissimo, e oggi non solo è abbastanza difficile da decifrare, ma anche da contare: secondo l’Inps sono 900mila, per il Ministero delle Finanze 1.3 milioni, per l’Istat 1.5 milioni e per il Cnel ben 3.5 milioni. Parliamo comunque di milioni di lavoratori che sono invisibili sia per la politica che per i sindacati, e ancora adesso devono scontare odiosi pregiudizi legati alla falsa equazione “lavoro autonomo = evasione fiscale”.

Con l’arrivo di Matteo Renzi – che ha sempre sbandierato la sua fascinazione per i giovani startupperoi che cambiano il mondo – si sperava che questa tendenza potesse essere invertita e che finalmente qualcuno riconoscesse “l’esistenza e la legittimità delle nuove forme di lavoro”, specialmente per i più giovani.

Secondo l’analisi dello scorso 10 ottobre dell’Osservatorio Partite Iva del Dipartimento delle Finanze, “ai giovani fino ai 35 anni è dovuta quasi la metà [il 49%, nda] delle nuove aperture”. Nel mese di agosto 2014 ci sono state “4.439 persone fisiche, pari al 26% del totale delle nuove aperture di partite Iva, che hanno aderito al regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e lavoratori in mobilità.” L’anno precedente, riporta Pagina 99, “queste adesioni sono state 136.551, e il 36,6% delle aperture sono relative alle persone fisiche Under 35”.

La riforma del lavoro è incredibilmente silente su questo tema. “Il Jobs Act non ha niente che veda qualche interessamento nei nostri confronti,” afferma Anna Soru, presidente di Acta (Associazione Consulenti Terziario Avanzato). “Renzi ha parlato di ‘apartheid’, di insider e outsider, però comunque definisce il perimetro del lavoro includendo solo quello dipendente. Tutto quello che è fuori da questo non è considerato”.

A dire il vero, un “interessamento” dell’esecutivo verso le partite Iva – e più precisamente verso il regime dei minimi – c’è stato nella legge di stabilità. Solo che la misura proposta non va esattamente incontro alle esigenze dei millennials.

Come spiega Linkiesta,

Fino a ieri, i giovani fino a 35 anni che aprivano una partita iva potevano usufruire del cosiddetto regime dei minimi: per cinque anni, se avessero guadagnato meno di 30mila euro, avrebbero pagato solo un sostituto d’imposta del 5%. Con la riforma del governo, il regime dei minimi è stato esteso a tutti, senza limitazioni di età, sino a 40mila euro, per dieci anni. Tuttavia, si è allargata pure l’aliquota, che è cresciuta fino al 15%. Ottime notizie per chi guadagna dai 30 ai 40mila euro, pessime per chi ne guadagna 15mila.

E ci sono davvero pochi dubbi sul fatto che un meccanismo del genere colpirebbe maggioramente i “lavoratori della conoscenza” e i giovani. Giusto per fare un esempio, un architetto di 28 anni con 10.500 euro di compensi annui pagherebbe all’incirca 1.460 euro, ben 240 euro in più degli attuali.

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(La tabella di confronto tra i due regimi fatta dal Sole 24 Ore.)

Persino il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti ha parlato di norme da rivedere, proponendo poi un emendamento che prevede un’aliquota stabile del 7/8%. “Sarebbe un passo in avanti che permetterebbe di dare un segnale positivo a oltre un milione di partite Iva”, ha spiegato il sottosegretario a Il Messaggero. “È vero che avremmo un’aliquota leggermente più alta di quella attuale, ma in cambio la tassazione forfettizzata verrebbe resa stabile”.

Se da un lato si è intervenuti, dall'altro nulla è stato fatto per bloccare l’aumento dei contributi alla gestione separata dell’Inps (che Anna Soru considera una forma di “apartheid fiscale”) deciso dal governo Monti. Attualmente l’aliquota è al 27.72% (dieci anni fa era circa al 14%), ma nel 2019 arriverà al 33.72% – una stangata che rischia di travolgere moltissimi lavoratori autonomi.

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(L'aumento della contribuzione all'Inps per le partite Iva. Grafico via Linkiesta)

Se si eccettua questa (non troppo gradita) attenzione, i freelance semplicemente non esistono nella riforma del lavoro. Anna Soru trova questa esclusione “sconcertante,” ed evidenzia anche come la classe politica e sindacale non abbiano minimamente colto la natura di quello che Sergio Bologna ha definito il "lavoro autonomo di seconda generazione".

“Siamo quelli che stanno pagando un prezzo molto da questa crisi", prosegue Soru. "Stiamo sperimentando un calo di commesse, del lavoro, dei pagamenti. Ma non abbiamo nessuna tutela, e men che meno i famosi 80 euro. Come freelance non siamo mai stati rappresentati in Parlamento, e questo chiaramente lo scontiamo. Siamo poco presenti anche nei sistemi di rappresenza tradizionali. Noi siamo in mezzo e ci becchiamo le fregature degli uni e degli altri”.

Insomma, non è semplicemente vero che questa riforma – come informa un’infografica del Governo Renzi – “non lascia indietro nessuno”. Ma dopotutto non c’è da stupirsene troppo: questa affermazione arriva da un esecutivo il cui premier ha rassicurato sul fatto che la disoccupazione ha i giorni contati.

“Vedrete che nei prossimi mesi torneremo sotto la doppia cifra”, ha promesso Matteo Renzi davanti ai giornalisti.

Era il primo aprile del 2014 quando l'ha detto.

Aggiornamento del 14/11/2014: Il 13 novembre Matteo Renzi ha dichiarato che “il primo gennaio entreranno in vigore le nuove regole sul lavoro in Italia. È un grandissimo passo in avanti”. Il premier ha anche assicurato che alla Camera non verrà posta la fiducia sul provvedimento, poiché la minoranza del Pd si è impegnata a votarlo.

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