Lo straniero da Omero a Ovidio: quando l’ospite era sacro e non si lasciava annegare in mare
Esiste una figura che da sempre inquieta e tormenta l’uomo: l’Altro. Quello che oggi, con paura, chiamiamo “straniero”. E così come questo termine ha una lunga storia e svariate declinazioni, anche il tipo di rapporto che abbiamo scelto di avere con esso è mutato, conservando però il suo carattere estremamente contraddittorio. Una contraddizione propria delle radici più profonde della nostra stessa cultura: ce lo insegnano anche i grandi poeti dell’antichità, come Omero e Ovidio.
Le radici dell’ospitalità: Omero e Ovidio
Nelle sue Metamorfosi Ovidio ci raccontala vicenda di Filemone e Bauci, due anziani sposi che trascorrono umilmente gli ultimi anni di vita in una capanna di paglia e fango in una remota località della Frigia. Alla loro porta, un giorno, si presentano due malconci viandanti, chiedendo cibo e un riparo per la notte: nonostante la loro estrema povertà, i due vecchi accolgono gli uomini con tutti gli onori possibili, sacrificando anche l’unica oca in loro possesso per poter offrire agli uomini un pasto caldo.
I vagabondi si riveleranno essere Zeus ed Ermete. Filemone e Bauci erano stati gli unici, in tutta la regione, ad accoglierli secondo il costume sacro dell’ospitalità. Gli dei scelgono di salvare i due coniugi dall'alluvione che si abbatte sugli empi concittadini, trasformando la loro capanna in un magnifico tempio e concedendo loro di dimorarvi quali sacerdoti e, dopo anni, trasformandoli in alberi che resteranno perennemente a guardia del tempio voluto dagli dei proprio in onore di quell'ospitalità che tutti gli altri avevano negato loro.
Un altro esempio del posto sacro riservato all'Altro nell'antichità ci viene dall'Odissea: in più di un’occasione Ulisse da vagabondo si trasforma in ospite. Una prima volta grazie a Nausicaa: sarà proprio la fanciulla, figlia del re dei Feaci, ad invitare le proprie ancelle a non fuggire dinanzi a quell'uomo giunto dal mare bensì ad offrirgli cibo, abiti e rifugio, affermando che “poiché alla nostra città, alla nostra terra sei giunto, non ti mancheranno le vesti né nessun'altra cosa di ciò che è giusto che riceva un supplice infelice”.
Ma l’ospitalità così sacra ai Feaci verrà violata in modo brutale quando Ulisse giungerà da Polifemo. E non è un caso che ad infrangere le regole ospitali sia un mostro antropofago, che divora l’equipaggio di Ulisse: il suo comportamento si fa metafora dell’abbrutimento dell’uomo che rifiuta l’altro rimanendo chiuso nella sua solitudine provocata, peraltro, dalla sua stessa mostruosa diversità.
Partire dal mito e scegliere: essere Nausicaa o Polifemo?
Nonostante questi poetici esempi l’antichità stessa è stata, nei confronti dell’Altro, sempre profondamente contraddittoria. Il mito infatti trasfigura il reale, idealizzando tutta una serie di valori che nella pratica politica e sociale delle poleis greche era ben più complessa: parallelamente alla legittimazione “mitica” dell’ospitalità l’uomo greco riteneva altrettanto sacra l’autoctonia. Lo straniero doveva sì essere ospite, ma allo stesso tempo egli restava sempre anche “diverso” e, in qualche modo, inferiore. Lo era lo xenos, straniero in quanto proveniente da un’altra città stato, e lo era ancor di più il barbaros, colui che non apparteneva alla grecità.
L’orizzonte entro il quale ci muoviamo oggi discende anche da tale complessità, e a meno di non scegliere di recidere di netto il legame con queste categorie rimaniamo costretti a farci i conti: forse, almeno inizialmente, il problema non è tanto guardare a chi sia lo straniero, l’Altro, il diverso; il problema non è tentare di trovare in lui la minaccia ad una libertà di cui non comprendiamo nemmeno il significato. Il problema è quello di decidere chi vogliamo essere noi: Nausicaa, o Polifemo?