Tassi e spread ancora in calo, eppure il bicchiere mi pare pieno solo a metà. Forse dovrei abituarmi a guardare il bicchiere mezzo pieno e pensare che in fondo va bene così: anche oggi dopo tutto i rendimenti sui titoli di stato italiani sono in calo, per la gioia del Tesoro itailano (nel frattempo impegnato a promuovere il nuovo Btp Italia pensato per gli investitori retail) e pure lo spread coi “famigerati” Bund tedeschi migliora (sul Btp decennale il rendimento scivola sul 4,85% dal 4,90% di ieri sera e lo spread col Bund decennale cala “addirittura” sotto il 3%, al 2,90%, cosa che non si vedeva da mesi) e, per la prima volta da mesi, all’asta dei Btp (che ha registrato un buon successo: i titoli a tre anni sono stati collocati per 5 miliardi di euro a fronte di richieste per 7,824 miliardi, quelli a dieci anni per un miliardo contro 1,995 miliardi richiesti, con tassi in calo al 2,76% dal 3,42% precedente nel primo caso e al 4,30% nel secondo) pare abbiano partecipato anche operatori inglesi, francesi e persino cinesi e non solo banche italiane impegnate a fare “carry trade” (ossia sfruttare a proprio vantaggio la differenza tra il costo della provvista, 1% fisso per i prossimi tre anni grazie alla generosità della Bce di Mario Draghi, e il rendimento dei titoli in cui investono il denaro appena ricevuto da Eurotower) per aggiustare i bilanci senza dover lanciare “spiacevoli” (soprattutto per le Fondazioni azioniste, a corto di quattrini ma per nulla intenzionate a cedere scranni nei consigli d’amministrazione) aumenti di capitale o procedere a cessioni che rischierebbero di avvenire a prezzi “distressed” (ossia stracciati, anche se nelle ultime settimane si è notato un sia pur lieve incremento delle valutazioni offerte).
E’ il caso di fidarsi? Non credo. O per lo meno al momento non riesco ancora a fidarmi del tutto: intendiamoci, non sono propenso come molti investitori del Nord Europa come Nordea (che oggi ha pubblicato un report in cui ammonisce sul pericolo di un “brusco risveglio” per chi finora ha cavalcato il rally di Btp e Bonos) e come molti investitori anglosassoni o statunitensi (uno per tutti Morgan Stanley) che sembrano aver scommesso tutto sul fallimento dell’euro e quindi sembrano provare un senso di fastidio nel dover constatare che per ora la manovra di Mario Draghi (che ha erogato alle banche europee tra Natale e fine febbraio oltre mille miliardi di euro a tre anni al costo dell’1% lordo annuo) ha riportato al calma sui mercati del credito (almeno per la parte a breve, ossia sull’orizzonte dei tre anni). No, semplicemente assisto con poco piacere (e molti timori) al tentativo della politica ed in particolare in questi giorni di una parte di essa di mettere nuovamente il cappello sul mondo del credito in Italia, facendosi promotrice di “proposte” che almeno in parte sembrerebbero andare nella direzione auspicata (evitare il credit crunch, agevolare il credito a famiglie e imprese) ma di fondo sembrano rivelare la tentazione dirigista e statalista che continua ad albergare nel cuore dei nostri rappresentanti.
Vi è un rapporto incestuoso tra politica e credito. Un rapporto mantenuto negli anni attraverso quelle Fondazioni che, come ho più volte detto, altro non sono se non grandi macchine (dotate di scarsi mezzi se non dei dividendi che gli giungono dalle banche partecipate) per costruire e mantenere il consenso su base territoriale (ossia nei propri collegi elettorali) da parte di un ceto politico che nelle banche è entrato fin dal secondo dopoguerra (quando esistevano ancora le “banche d’interesse nazionale” e per fare carriera non contava tanto la competenza tecnica quanto la tessera che si aveva in tasca). Così ancora oggi esistono istituti “rossi” e “bianchi” a seconda della vicinanza all’uno o all’altro schieramento, senza che la politica abbia saputo elaborare una vera (e virtuosa) politica del credito in grado di fornire una leva di sviluppo al paese, mentre sono proliferate ovunque clientele ed amicizie “particolari” che non hanno impedito alle banche di mantenere costi elevati per servizi inefficienti (anzi hanno trovato spesso in questa “politica commerciale” una forma di compensazione), quando non di imporre autentiche “tasse” alla clientela ordinaria (il caso dei derivati ad elevato costo per il sottoscrittori richiesti da alcune banche come precondizione prima di erogare un prestito è tuttora oggetto d’indagine).
Il “colore” della parte politica ha mai fatto differenza in termine di efficienza nella gestione. Banchieri “vicini” al Pd senese hanno negli anni impoverito sistematicamente il Monte dei Paschi di Siena con una politica dissennata di acquisizioni (prima di Banca 121, poi di Antonveneta) avvenute a prezzi folli dopo decenni di altrettanto poco sensato “splendido isolamento”. Mentre banchieri “vicini” al centrodestra come Cesare Geronzi in Capitalia non sono stati in grado di evitare che l’istituto vedesse fortemente indeboliti i propri fondamentali patrimoniali e la propria redditività, dovendo infine accettare di farsi “soccorrere” (ossia acquistare) da un banchiere “rosso” o come Alessandro Profumo (in corsa in queste settimane per la poltrona di presidente di Mps), cui va se non altro dato atto di aver tentato di dare vita a un gruppo multinazionale anche per non dover sottostare ai diktat incrociati della politica romana e di quella locale espressa dalla singole Fondazioni azioniste. A guardare la storia quella rivoluzione culturale e di costume, oltre che economica, necessaria a rafforzare realmente il settore creditizio e finalmente far giungere il credito a coloro che ne hanno maggiore necessità (imprese e famiglie) in base a criteri di merito e non di amicizia non sembra ancora avvenuta, né si vedono allo studio da parte del governo o del parlamento provvedimenti in grado di portare a una rivoluzione in questo campo. Come dice un amico e collega, possiamo dunque compiacerci del calo dello spread tra Btp e Bund, ma il vero “spread” tra l’Italia e il resto del mondo (non solo la Germania) sta altrove.