Lì dove si scompare nel nulla
Sono mesi, ormai, che in quel lembo di terra chiamato Libia, stretto tra il deserto e il mar Mediterraneo, si combatte alla ricerca di una libertà per la quale non si è trovata altra via se non quella del sangue; mesi che uomini, donne e bambini fuggono alla volta di altri paesi per cercare un brandello di cielo azzurro, ritrovandosi, ormai sempre più spesso, schiavi in terra straniera, segregati in un campo a guardare i giorni vuoti e dolorosi andare via, ultimi tra gli indifferenti al dramma storico di cui sono testimoni.
Ad alcuni, tuttavia, il destino ha riservato crudeltà anche maggiori di quelle dei propri fratelli: ci sono tutti quelli che mai metteranno piede nel mondo nuovo, perché inghiottiti dai flutti, si stima, solo per quest'anno, 1500 morti senza nome che, assieme a tutti i profughi che dall'Africa negli anni scorsi hanno cercato rifugio sul nostro suolo, sono diventati il nuovo tragico fondale di quel braccio di mare che ci separa da loro. E poi ci sono gli scomparsi, come quelli con cui mantiene i contatti l'agenzia per la cooperazione e lo sviluppo Habeshia, la quale denuncia ormai da mesi una intollerabile situazione di traffico di esseri umani, rompendo l'ipocrita silenzio che la comunità internazionale porta avanti.
Vengono chiamati i profughi del Sinai: sono africani che provengono da Sudan, Somalia, Eritrea, Etiopia, disperati che hanno cercato di varcare il confine con Israele, pagando per raggiungerlo, in cerca di un futuro ma, purtroppo, anche solo di una fuga da realtà inimmaginabili, e che sono finiti nelle mani dei predoni del deserto. Una tragedia umanitaria che si consuma nella totale indifferenza, in cui centinaia di adulti e bambini vengono segregati nei sotterranei delle ville dei beduini e negli scantinati delle palazzine di Rafah, città valico di confine tra Egitto e striscia di Gaza, torturati quotidianamente con percosse, scariche elettriche, bruciature provocate dalla plastica sciolta sui loro corpi, abusi sessuali sulle donne, come raccontano al telefono; chi paga 25 000 dollari (non pochi per una famiglia etiope) può vedere Israele, come accaduto già per circa 17 persone: ma gli altri? Che fine hanno fatto?
L'agenzia, diretta da don Mussie Zerai, si occupa di questa tragica emergenza e nei giorni scorsi è tornata a chiedere risposte a proposito di un gruppo di circa 400 profughi, 335 adulti che portavano molti bambini con sé, partiti dal porto di Zarzis o di Tripoli il 22 marzo di quest'anno e di cui non si hanno più notizie; a quindici giorni da quella partenza, giunsero notizie di corpi ritrovati nel deserto crivellati di proiettili e da allora il silenzio è caduto su questi cittadini eritrei, somali ed etiopi, tra i primi che tentarono di lasciare la Libia in rivolta contro il regime.
Non è stato possibile stabilire alcun contatto con essi e, adesso, don Zerai chiede al Consiglio Transitorio Nazionale libico di fare luce su questo che potrebbe essere l'ennesimo atroce crimine contro l'umanità, consumatosi in quella terra: i media libici potrebbero aiutare raccogliendo testimonianze, in concerto con gli operatori umanitari presenti sul territorio, nella speranza che le Autorità libiche non vogliano, anch'esse come quelle di tutti gli altri Stati, seppellire questi 400 innocenti sotto l'inattaccabile cortina dell'oblio.