Parlarne, parlarne sempre. Le mafie temono la consapevolezza, la cultura, la parola in ogni sua forma. E quindi bisogna parlarne. Anche quando qualcuno ti attacca, anche se qualcuno sostiene che non serva, che occorra invece «fare i fatti» (quali? E perché bisogna farli in silenzio?). Parlarne, senza limitarsi ad ascoltare i ‘guru' dell'antimafia, parlarne tra noi e se possibile – e lo è, se hai un cellulare collegato a internet – documentarsi. Poi, per carità, guardare pure le serie tv sulla camorra a Scampia e le loro parodie, farsi anche due risate – ridurle a maschere carnascialesche è fondamentale – ma poi non dimenticare mai la scia di sangue, le violenze e soprattutto i tanti soldi che consentono loro di stare a galla, anzi, di organizzare la prossima salita nella scala sociale: non più nei bunker segreti ma nelle aule d'Università economiche, non più armati di Kalashnikov ma di avvocati civilisti, lobbisti e stakeholder.
Parlarne e sostenere chi ne parla e chi – sono purtroppo ancora tanti – per il solo fatto di scriverne viene messo in una costante condizione di pericolo. Non creare eroi, non scaricare su terzi il proprio ruolo: l'acquisto di un libro, la visione di uno spettacolo teatrale o di un film non è una laurea in mafiologia né tanto meno una medaglia d'onestà da appuntarsi in petto. Praticare, non predicare. Tutti i giorni, che tu sia un imbianchino o un giudice.
È questa la lezione che mi ha lasciato Giovanni Falcone; quando è morto avevo 15 anni.