Non accenna a stabilizzarsi la situazione in Libia e, soprattutto dopo l'apparizione di Gheddafi alla Tv di Stato, a Tripoli ma soprattutto a Bengasi resta altissima la tensione tra manifestanti e forze dell’ordine, con centinaia di vittime e la sensazione di essere ormai in una situazione di piena guerra civile. Il quadro che si va sempre più delineando è quello di un paese ridotto alla fame, di un popolo ormai stanco di una dittatura che dura dal 1 settembre 1969, allorquando il colonnello Gheddafi rovesciò la monarchia di re Idris. La rivolta del popolo libico è solo l’ultimo atto di un fermento rivoluzionario che sta attraversando tutto il Nord Africa e che ha già visto profondamente mutati gli assetti politico-istituzionali della Tunisia e dell’Egitto dopo la cacciata, rispettivamente, di Ben Ali e di Mubarak.
Gli interrogativi su quanto ciò che sta avvenendo in Nord Africa possa incidere sulla ricomposizione di un nuovo scacchiere geo-politico si moltiplicano. Non va dimenticato che per anni il regime di Mubarak ha svolto il ruolo di unico “alleato” di Israele tra i paesi arabi (non a caso nei giorni della rivolta egiziana fu il solo premier israeliano Netanyahu ad esprimere sostegno a Mubarak), per non parlare del timore che le rivolte nordafricane più che tracciare la strada della transizione democratica, possano aprire le porte al fondamentalismo islamico.
A tener banco in queste ore, però, è un’altra questione, legata in special modo alla situazione libica: la possibilità che si determinino imponenti flussi migratori verso l'Europa ed in particolar modo verso il nostro paese. Le dichiarazioni del Ministro degli Esteri italiano lasciano poco spazio ai dubbi: “Sappiamo cosa ci aspetta quando verrà giù il sistema – paese Libia: un’ondata anomala di 2-300mila clandestini, un esodo biblico”. Se davvero dovesse verificarsi quanto prefigurato dal Ministro Frattini, il nostro paese si troverebbe a dover fronteggiare un’emergenza umanitaria senza precedenti e la situazione già precaria che si vive su quelli che saranno i probabili punti d’approdo dei migranti, vedi Lampedusa, rischierebbe di collassare del tutto. In questo scenario la richiesta d’aiuto formulata dal Governo Italiano nei confronti dell’Unione Europea appare, più che sensata, legittima.
Il Ministro Frattini ha più volte ribadito che non si tratta di chiedere all’Unione Europea di farsi carico di una eventuale redistribuzione dei migranti sui territori nazionali ma, piuttosto, di mettere in campo un “meccanismo serio di ripartizione degli oneri economici, sociali e anche umani del flusso migratorio che uno o più Paesi membri, in particolare del Mediterraneo, potrebbero subire». Sulla risposta che l’Unione Europea sarà in grado di costruire su un tema così delicato come quello dei migranti si misurerà buona parte della consistenza e dello spessore del progetto politico europeo. Non può passare il messaggio che di fronte a processi di così vasta portata ogni membro dell’Unione venga lasciato solo a se stesso. Sarebbe una visione profondamente miope ed andrebbe a minare il presupposto stesso di un’organizzazione politica come l’Unione Europea. Certo, la sensazione è che il Governo sia arrivato ancora una volta impreparato su un tema così delicato, così come sottolineato anche da Laura Boldrini, attualmente portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), in una recente intervista a L'Unità, nella quale si faceva notare l'inadeguatezza della scelta di smantellare i centri di accoglienza "di eccellenza" certi delle rassicurazioni del colonnello Gheddafi sul "contenimento" dei flussi migratori (a che prezzo verrebbe da chiedersi…). Allo stesso tempo, fonti diplomatiche raccolte dal Corsera hanno messo in evidenza come "non possa essere un problema per un Paese di 60 milioni di abitanti accogliere poche decine di migliaia di persone, specie se si ricorda di quanto nazioni come la Germania hanno saputo mettere in campo in passato di fronte a ben più imponenti masse di profughi".
Detto questo c’è anche da interrogarsi, allo stesso tempo, sul perché parecchi governi europei (tra questi spicca l’Italia) abbiano favorito negli anni il consolidarsi di relazioni economiche con la Libia, a tutto svantaggio di una seria analisi sulla mancanza di pratiche democratiche e sulla condizione materiale del popolo (che certamente ha un reddito pro capite superiore a quello dei Paesi vicini, ma in un sistema di sempre crescente divario sociale). Si possono sacrificare, sull’altare del profitto e dello “sviluppo” economico, il rispetto dei diritti umani e la negazione delle libertà fondamentali? Per quale ragione in ambito europeo (fatte salve rarissime eccezioni) nessuno ha mai denunciato la costituzione di veri e propri lager da parte del governo libico, come riportato da numerose organizzazioni umanitarie, nei quali venivano rinchiusi profughi provenienti dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia?
In buona sostanza, oggi più che mai, non è possibile ricondurre la situazione libica ad una mera questione di flussi migratori riguardanti la tenuta dell’ordine pubblico nei nostri paesi. Né tantomeno possono ricever credito le stravaganti affermazioni di qualche ministro nostrano, notoriamente sensibile al tema dell’immigrazione. Tutto ciò rimanda ad una più generale considerazione sulla necessità di costruire una politica estera comune da parte dell’Unione Europea. Una politica estera che favorisca processi di costruzione democratica nei paesi ancora guidati da regimi illiberali, tanto più se questi paesi si affacciano sul Mediterraneo. Anche perchè la messa in campo di una politica di questo tipo si rivela non soltanto auspicabile dal punto di vista morale, ma anche interessante dal punto di vista economico: favorire processi di democratizzazione e di sviluppo in questi paesi significherebbe aprire un ventaglio di possibilità di diverso tipo e certamente contribuirebbe a stabilizzare l'intera area e ad allentare le tensioni.
A cura di Rocco Corvaglia – Adriano Biondi