“Il Pd ha presentato un emendamento per sopprimere l'articolo del decreto dignità che aumenta i risarcimenti per i lavoratori che vengono licenziati ingiustamente. Nel dettaglio il decreto dignità porta le mensilità minime di risarcimento da 4 a 6 e quelle massime da 24 a 36. Come si può essere contrari a una norma che dà un giusto indennizzo ai lavoratori che subiscono degli abusi?” Con queste parole, il vicepresidente del Consiglio e ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio ha commentato duramente la presentazione di un emendamento al decreto dignità da parte della deputata del Partito Democratico Debora Serracchiani, ex governatrice della Regione Friuli Venezia Giulia, di Stefano Lepri e di altri parlamentari democratici. Per Di Maio è “incomprensibile” che “un partito di sinistra si schieri contro il riconoscimento di maggiori diritti a chi lavora” ed è il segno più evidente di come la rappresentanza dei lavoratori ora sia “compito” del Movimento 5 Stelle. A cosa si riferisce Di Maio? E il PD ha davvero presentato un emendamento per diminuire il risarcimento nel caso in cui un lavoratore sia licenziato senza giusta causa?
Stiamo parlando dell’emendamento numero 3.10, che mira appunto a sopprimere il comma uno dell’articolo 3 del Decreto Dignità, che recita:
All’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, le parole « non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità » sono sostituite dalle seguenti: « non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità».
Si tratta della modifica al Jobs Act nella parte in cui prevede che al lavoratore licenziato senza giusta causa spetti un indennizzo tra le 4 e le 24 mensilità. Come noto, infatti, il decreto che porta la firma di Luigi Di Maio non ha “smantellato” il Jobs Act, ma ne ha corretto alcuni aspetti, ampliando tutele e indennizzi per i lavoratori. Il decreto, è bene ribadirlo, si muove all’interno della riforma renziana del mondo del lavoro e l’articolo 3 ne è ulteriore conferma. L’emendamento del PD accoglie in qualche modo le perplessità delle aziende e di Confindustria, che vedono nell’aumento degli indennizzi (ma anche nella stretta sui rinnovi dei contratti a termine) un deterrente per nuove assunzioni, preventivando un calo di posti di lavoro nel medio periodo. Come ha spiegato Cesare Damiano al Fatto, la proposta di Lepri e Serracchiani sconfessa anche quanto fatto dalla Commissione Lavoro nella scorsa legislatura: “Quanto fa il governo sugli indennizzi è la fotocopia di ciò che è stato approvato dalla commissione Lavoro della Camera nella scorsa legislatura, Pd compreso, con un testo che prevede di portare le mensilità minime di risarcimento da 4 a 6, e quelle massime da 24 a 36, in relazione all’anzianità aziendale”.
Ma allora, perché il PD ha presentato un emendamento di questo tipo?
Una risposta "reale" non c'è, in effetti, considerando che non è in discussione l'impianto del Jobs Act tanto caro alla componente renziana del PD e che, appunto, lo stesso PD aveva espresso un orientamento simile a quello del governo solo qualche mese fa. È nota invece la contrarietà al decreto, che per i dem (forti delle stime INPS) aumenterà la disoccupazione e avrà un effetto deterrente sulle nuove assunzioni. Siamo evidentemente di fronte a un arroccamento intorno alle posizioni contenute nel Jobs Act, che i democratici continuano a valutare positivamente rivendicandone gli effetti positivi sul versante occupazionale e respingendo al mittente le accuse di aver aumentato la precarizzazione delle esistenze, di aver spostato ulteriormente l'asse della contrattazione e di aver determinato la definitiva scollatura fra i lavoratori e il partito che storicamente li ha rappresentati.
Il segretario Martina e la stessa Serracchiani, dopo le critiche, hanno provato a spostare la discussione su un altro piano, soffermandosi su un altro emendamento presentato dal PD in Commissione, ovvero quello che riguarda l’indennizzo per il lavoratore nel caso in cui l’azienda ricorra alla conciliazione.
Di cosa si tratta? I democratici chiedono di introdurre modifiche all’articolo 3 del decreto dignità, con l’inserimento di un comma 1 bis, che affronti il tema degli indennizzi nel caso di “conciliazione”. Tale strumento, disciplinato dall’articolo 6 del Jobs Act, riguardante i contratti a tutele crescenti, permette al datore di lavoro che intende licenziare un dipendente, di evitare il ricorso al Tribunale del Lavoro, offrendo una somma (esente da tassazione Irpef) che varia da un minimo di 2 a un massimo di 18 mensilità, cui aggiungere una indennità di disoccupazione per un massimo di 24 mesi. La conciliazione, in sostanza, permette al datore di lavoro di risparmiare e al dipendente di ottenere con più rapidità l’indennizzo, evitando la trafila al Tribunale del Lavoro. Il PD propone di innalzare le soglie minime e massime, portando da 3 a 27 le mensilità dovute al lavoro nel caso di conciliazione per licenziamento ingiustificato. Secondo i democratici, le due cose, la conciliazione e gli indennizzi per licenziamento ingiustificato, vanno di pari passo e, anzi, l'aumento dei minimi per la conciliazione va nella direzione di garantire maggiori tutele ai lavoratori. Sul punto, il Governo ancora non ha risposto.