In un paese normale non sarebbe possibile, ma l’Italia non è evidentemente un paese normale. In un paese normale il Consiglio dei ministri non approverebbe un disegno di legge “incompleto”, tanto più se si trattasse della Legge di Stabilità (l’ex Legge Finanziaria) da cui dipende tutto l’operato in campo economico del governo nell’anno successivo. In un paese normale il ministro dell’Economia e finanze e il premier anziché andare a tutti i salotti televisivi possibili e immaginabili a fare campagna elettorale sparando cifre che dopo sei giorni restano ancora senza alcun riscontro su bonus, incentivi, misure di sostegno all’economia e sgravi fiscali che nel “testo incompleto” semplicemente non esistono o non sono tali da produrre gli effetti benefici di cui parlano gli esponenti del governo, si metterebbero al lavoro per terminare rapidamente il lavoro di “completamento” (o scrittura da zero?) della relazione tecnica e delle tabelle di accompagnamento senza le quali qualsiasi legge e la Legge di Stabilità in particolare è meramente un libro dei sogni, un “contratto con gli italiani” senza alcun valore vincolante.
In un paese normale non si invierebbero a Bruxelles, dove la Commissione Barroso si appresta a passare la patata bollente alla Commissione Juncker dal primo novembre, poche decine di cartelle stampa per spiegare “lo spirito” della addivenendo (forse, chissà, magari) Legge di Stabilità: si manderebbe un testo completo corredato di tabelle e vidimato dalla Ragioneria Generale dello Stato, tanto più quando con tale provvedimento si intende, a ragione, deviare da un percorso di “risanamento” dei conti pubblici che è tale solo in termini puramente ragionieristici ma che rischia, se non corretto e ponderato opportunamente per il ciclo economico, di produrre più danni che benefici. In un paese normale non si griderebbe ai quattro venti che si stanno dando “più risorse” di quante se ne tolgono, semplicemente rinviando (e cumulando) l’entrata in vigore delle famose (o famigerate) “clausole di salvaguardia” che obbligheranno il governo italiano in carica ad aumentare (non ridurre, aumentare) le imposte di 18 miliardi nel 2016, di 24 miliardi nel 2017 e di 28 miliardi nel 2018, sempre secondo il testo “incompleto” di cui si legge sui giornali.
Capire quando e come l’Italia abbia smesso di essere un “paese normale”, se prima o durante il ventennio “a colori” berlusconiano, i suoi lustrini e le sue promesse da piazzista puntualmente disattese ma altrettanto puntualmente rinnovate con continui e successivi salti mortali, ogni volta un po’ più difficili, ogni rinviando la soluzione dei problemi per non disturbare troppo i cittadini-elettori, per non rovinare i dati dell’audience, è materia che potrà riempire i libri di storia e di sociologia. Capire come e se sia possibile uscire dal “cul de sac” in cui ci siamo ostinatamente infilati è materia da saggi di economia. La sensazione è che una uscita potrebbe non esserci più, o per lo meno che un’uscita non la sappia più immaginare, concretamente, alcuno dei protagonisti attuali della scena politica ed economica italiana. Perché? Perché da come si agisce sembra che non debba esserci un domani.
Prima si sono spinte imprese e famiglie ad utilizzare sempre meno il contante, demonizzandone l’uso in quanto troppo prossimo al “nero”, all’evasione fiscale, al mondo dell’economia sommersa e illegale. Poi si sono portate le banche ad alleggerire i propri bilanci degli asset a rischio, perché si vogliono evitare ulteriori crisi come quelle del 2008-2009 nate dall’eccesso di azzardo morale, dalla (fallace) fiducia derivante dall’essere troppo grandi per fallire, della certezza dell’aiuto pubblico. E per alleggerire dei rischi i bilanci le banche cosa cosa hanno fatto? Hanno stretto il credito, strozzando sul nascere ogni tentativo di ripresa e scaricando il rischio sulle spalle delle imprese, imprese che in troppi casi in passato avevano scaricato rischi e oneri sulle spalle del settore pubblico (privatizzando puntualmente i profitti), quello stesso settore pubblico ora additato ad esempio di scandalo, di mala gestione, di sprechi, di spesa fuori controllo.
Oltre a strozzare il credito a imprese e famiglie le banche, col consenso delle istituzioni, hanno aumentatoi costi per la clientela perché da qualche parte i margini che l’epoca del denaro a costo zero o quasi fa perdere occorre trovare il modo di farli risalire. Non per tutti, si intende, perché gli “amici” continuano ad avere trattamenti di favore, ristrutturazioni di posizioni debitorie, compartecipazioni al rischio. Tutto quello che gli “altri” ( io e voi) non ottengono. Nel frattempo in punta di piedi le banche hanno provato anche di liberarsi dei titoli di stato, perché con oltre 2.100 miliardi di debito pubblico che aumenta ad un tasso del 4,7% annuo e un Pil che invece cala o non cresce è solo questione di “quando” non di “se” perché si arrivi al default o, per evitarlo, ad un “haircut”, una ristrutturazione del debito stesso “alla greca”. Già ma se le banche vendono i titoli a chi li vendono? Alle famiglie italiane, perché nel frattempo si aumenta la tassazione su ogni altra forma di impiego dei risparmi con la scusa di “sostenere” i consumi (che continuano in realtà a calare o a non ripartire persino in categorie tradizionalmente anticicliche, perché i consumi dipendono dalle aspettative future dei consumatori in termini di reddito disponibile e queste non stanno migliorando).
Così se mantenere i propri risparmi liquidi è difficile, se investirli in fondi comuni, azioni o fondi pensione rende sempre meno, il ritorno dei “bond people” è questione, anche in questo caso, solo di “quando”, non di “se”, persino a livelli di rendimento così bassi che una pur minima fiammata inflazionistica, che prima o poi potrebbe venire a seguito delle misure “non convenzionali” che la Bce ha adottato o sta per adottare, potrebbe portare ad azzerarli in termini reali. Una prospettiva che in qualche misura gli investitori istituzionali già scontano, tanto che la settima emissione di Btp Italia, che in queste ore ha chiuso la raccolta per quanto riguarda la componente al dettaglio, potrebbe vedere un ritocco all’insù per favorire la domanda da parte degli investitori istituzionali (che avranno due ore nella mattina di giovedì 22 ottobre per piazzare i propri ordini, dalle 9 alle 11), visto che l’attuale cedola minima garantita, pari all’1,15% sopra l’inflazione italiane, è apparsa fin troppo modesta rispetto a quella della precedente emissione di aprile (che ha garantito ai sottoscrittori un rendimento minimo reale dell’1,65% annuo).
Una volta che il quadro sopra ricordato si sarà avverato, se l’Italia non dovesse aver sperimentato una ripresa sufficientemente robusta, se il paese non sarà ancora tornato un “paese normale”, cosa si frapporrebbe tra i risparmi degli italiani e un pesante prelievo patrimoniale sotto forma di ristrutturazione obbligata (sia pure presentata formalmente come in qualche misura “volontaria”) del debito pubblico? Dopo tutto gli italiani risultano così ricchi che nessuno in Europa o nel mondo si commuoverebbe. Altro che 4 miliardi di risparmi da trovare da parte delle 20 regioni italiane, i veri “tagli” potrebbero essere molto meglio nascosti nel testo “incompleto” della Legge di Stabilità e non riguardare la spesa pubblica, ma il risparmio privato. Saranno solo i timori di un sempre più disilluso analista finanziario? C’è da augurarcelo.