Che il clima fra il Governo italiano e la Commissione Europea non sia dei migliori è cosa nota, anche al netto delle speculazioni giornalistiche e dei retroscena più o meno sensati. Dietro le polemiche di questi giorni, con botta e risposta al veleno che hanno coinvolto direttamente il Presidente del Consiglio (che in una lettera a Repubblica non ha mancato di sottolineare come i Paesi che ora stanno meglio hanno ripetutamente aggirato vincoli e parametri), ci sono due grandi questioni: l'emergenza immigrazione e l'eterno dibattito sulla "flessibilità". Oppure, se volessimo essere sbrigativi e brutali: soldi e consenso elettorale.
Della questione immigrazione abbiamo parlato a lungo, mentre può essere interessante aggiungere un ulteriore elemento alle considerazioni sul braccio di ferro Italia – Ue in tema di “stabilità finanziaria”. L’occasione è offerta da un documento al quale non è stata data particolare importanza, ma che invece rivela quanta distanza vi sia ancora fra la “narrazione” di Palazzo Chigi, i fatti in sé e la linea dei vertici di Bruxelles e di Juncker in particolare.
Si tratta delle previsioni economiche d’inverno della Commissione Europea, diffuse nei primi giorni di febbraio, il cui contenuto è stato analizzato e sintetizzato dal Centro studi del Senato: un report che mostra non solo quanto divergano le previsioni di Governo e Ue, ma anche quali siano i “consigli” di Bruxelles che danno particolarmente fastidio a Roma.
Prima di tutto bisogna considerare il quadro generale, con il PIL reale della zona euro che nel 2016 dovrebbe segnare un +1,7% e nel 2017 un +1,9%. Sui dati per l’Italia, invece, le previsioni divergono in maniera importante: per il ministero dell’Economia e delle finanze avremo un +1,6% sia nel 2016 che nel 2017; per la Commissione Ue, invece, si registrerà un +1,4% nel 2016 e un +1,3% nel 2017; per il FMI addirittura un +1,3 (2016) e +1,2 (2017); mentre OCSE e ISTAT sono concordi nello stimare un +1,4% sia nel 2016 che nel 2017. Non si tratta di differenze di poco conto, e non solo perché un punto di PIL vale circa 16 miliardi di euro.
Il punto è che le stime di Commissione e Governo divergono in maniera sensibile anche su altri indicatori.
Quelli che riguardano l’inflazione, per esempio. Se il MEF stima una crescita dell’inflazione dello 0,3 e 1 percento per il biennio in corso, la Commissione Europea è decisamente più prudente e parla di +0,1 e +0,3% (qui il nodo è rappresentato dal disinnesco delle clausole di salvaguardia, che il Governo cercherà di portare a termine, evitando l’aumento dell’Iva, ma abbassando l’inflazione).
In più, sul rapporto debito/PIL “dopo il picco del 2015 (132,8%) la Commissione stima che l'indicatore si avvierà su di un sentiero di riduzione, seppure a ritmi inferiori a quelli previsti dal Governo, portandosi al 132,4% nel 2016 e al 130,6% nel 2017, a fronte rispettivamente del 131,4% e 127,9% indicati nel DPB 2016”.
Perché questa differenza di stime è così rilevante? Lo spiega la nota del Centro Studi: “Le differenze riscontrate tra le previsioni dei tassi di crescita del PIL reale e dell'inflazione del Governo e della Commissione si riflettono in differenze nelle stime della dinamica del PIL nominale e, di qui, sull'andamento dei principali indicatori di finanza pubblica”.
Insomma, dai numeri dipendono gli equilibri di bilancio, dagli equilibri dipendono i margini di manovra, dai margini di manovra dipendono le scelte dei Governi, dalla scelte dei Governi dipende la loro sopravvivenza politica.
PS: E che la partita sia tutta politica lo dimostrano le considerazioni che la Commissione Europea fa sul tasso di disoccupazione in relazione alle riforme del Governo: “Si rileva come le misure di decontribuzione in favore delle assunzioni a tempo indeterminato, in presenza di un livello stabile delle forze lavoro abbiano contribuito a ridurre il tasso di disoccupazione dal 12.7% del 2014 all'11.9% del 2015. Nel biennio 2016-2017, con il rafforzamento della crescita, il tasso di occupazione dovrebbe aumentare in media dell'1% all'anno, mentre il tasso di disoccupazione è atteso ridursi gradualmente anche per effetto dell'ingresso degli inattivi tra le forze lavoro”. Come a dire: i numeri sull'occupazione sono effetto della decontribuzione, dunque di un intervento diretto (e non replicabile all'infinito) del Governo, non della ripresa economica.