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Le donne non sono ancora libere di scegliere

Di donne e diritti si è parlato tanto negli ultimi mesi, e se ne parla anche oggi, 8 marzo. C’è un argomento, però, che rimane per lo più sullo sfondo: la libertà di scegliere. Esistono nel nostro paese leggi che consentono di decidere sulla maternità, sul proprio corpo, percorsi pensati per donne vittime di violenza, provvedimenti ad hoc per favorirne l’inserimento nella vita politica o lavorativa. Sulla carta, dunque, tutto bene. Nella pratica, però, sono le donne oggi libere di scegliere?
A cura di Redazione
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A cura di Claudia Torrisi e Charlotte Matteini 

Di donne e diritti in Italia si è parlato parecchio, soprattutto negli ultimi mesi. Il dibattito sulla maternità surrogata – venuto fuori con la discussione in Aula in Senato del ddl Cirinnà sulle unioni civili e la previsione della stepchild adoption – è stata solo l'ultima delle occasioni, che ha occupato le cronache quasi quotidianamente. Ancora di donne si è parlato in occasione dei casi di cronaca che hanno visto neomamme morire di parto in diverse parti d'Italia, o quando l'Istat ha diffuso i suoi dati sulla violenza di genere: nel nostro paese in sei milioni e 788 mila ne hanno subito una qualche forma nel corso della loro vita. Se di diritti e donne si discute, c'è un argomento che rimane per lo più sullo sfondo: la libertà di scegliere. Sono le donne oggi, in Italia, libere di scegliere? A parole e sulla carta certamente sì. Esistono leggi che consentono di decidere sulla maternità, sul proprio corpo, percorsi pensati per donne vittime di violenza, provvedimenti ad hoc per favorirne l'inserimento nella vita politica o lavorativa. Nella pratica, però, la libertà di scegliere su certi temi resta quasi un tabù, un retaggio vetero femminista con poche implicazioni pratiche.

Aborto: un diritto che diventa un problema

Partiamo dalla libertà di scegliere se e quando diventare madri. C'è una legge, la 194 del 1978, che prevede espressamente che si possa abortire volontariamente entro i primi 90 giorni di gestazione. Il fatto che questa normativa esista, purtroppo, non è garanzia che quei diritti che vorrebbe tutelare vengano rispettati nella pratica. L'interruzione di gravidanza nel nostro paese, pur se prevista per legge, rischia di diventare un percorso a ostacoli. Il problema più grosso è l'altissima percentuale di ginecologi obiettori di coscienza. Secondo l'ultima relazione del ministero della Salute sull'applicazione della 194 in Italia, i numeri si attestano sul 70% come media nazionale. Le percentuali in alcune regioni toccano vette ancora più alte: il picco è in Molise, 93,3%. L'obiezione è prevista espressamente dalla 194. Ma è evidente che numeri così sbilanciati hanno delle conseguenze. Senza contare i medici – non conteggiati nelle percentuali del ministero – che lavorano in strutture che non prevedono proprio il servizio di Ivg. Quando questi ospedali si trovano in piccoli centri, le donne sono costrette a "migrare". Secondo l'Istat, complessivamente nel 2012 oltre 21 mila donne su centomila hanno dovuto spostarsi verso un'altra provincia, e di queste 8.824, cioè il 40%, sono dovute andare un'altra regione.

Spesso nelle strutture c'è un solo ginecologo non obiettore che garantisce il servizio. Il che significa che se questo va in pensione, il reparto viene sospeso. Molte donne raccontano di sedute interminabili in cui medici cercano di convincerle a rinunciare, di raduni davanti i reparti con i vangeli in mano, di attese estenuanti da sopportare in silenzio "perché te la sei cercata".  Gli ostacoli sono di diversa misura, ma si frappongono tutti tra la donna e la libertà di usufruire di un suo diritto. Scrive Chiara Lalli su Internazionale che nonostante la 194 non obblighi a ricorrere allo psicologo e all'assistente sociale, "a volte sembra diventare una procedura di default, un passaggio obbligato e burocratico, un intervento svuotato di senso e applicabile a tutte le persone senza distinzione". Un punto "rivelatore dello spreco e della ritrosia a migliorare le condizioni di un servizio giudicato quasi come un corpo estraneo nel dominio della medicina".

Recentemente il governo ha trasformato l'aborto clandestino entro i 90 giorni – prima punito con la reclusione – in illecito amministrativo. Con lo stesso provvedimento sono state innalzate le multe, che da 51 euro (100mila lire ai tempi dell’approvazione della 194) sono passate a una forbice che va da minimo di 5 mila e un massimo di 10 mila euro. Molte donne hanno protestato verso quella che sembra più una punzione che una sanzione, e che promette scarsi risultati: non funzionerà come deterrente (nessuno denuncerà) e avrà conseguenze sulla salute delle donne (molte si negheranno la possibilità di andare in ospedale in caso di complicazioni post intervento). L'aborto clandestino esiste ancora, seppur in forme diverse da quelle che siamo abituati a conoscere, e intorno sono sorte nuove piaghe, come quello "fai da te". Come scrive Lalli su Internazionale che "l'aborto è un servizio medico ma è trattato come un problema morale". A gennaio una ragazza di 19 anni è morta in ospedale dopo essersi sottoposta a un'interruzione volontaria di gravidanza. Tra i messaggi di cordoglio, ce ne sono stati anche alcuni del tipo "se l'è cercata". Libere di scegliere, sopportandone il prezzo.

Nel 2016 ancora si ha paura di parlare di contraccezione

Una donna, in Italia, può davvero definirsi emancipata e libera di gestire la sua femminilità in toto? A ben vedere, siamo ancora molto lontani dagli standard dei Paesi più civili. Un banale esempio: la contraccezione femminile, argomento di cui ci si vergogna quasi a parlare. Pillola contraccettiva? Le informazioni reperibili sono spesso scarse e contraddittorie, per lo più le ragazzine cercano su internet, sono restie a parlarne con un medico o un insegnante. Resistono ancora oggi, nel 2016, numerose leggende e luoghi comuni che fanno apparire quello che è uno dei contraccettivi più efficaci attualmente in commercio come fosse una sorta di strumento del demonio. A scuola raramente si parla di contraccezione, men che meno di pillola. Nel Paese culla del cattolicesimo, resistono ancora scuole di pensiero che reputano la pillola una contraccezione immorale, perché impedendo di fatto la naturale ovulazione femminile, sostanzialmente rende il sesso un mero strumento di piacere, annullandone di fatto il nobile fine procreativo: la gravidanza non va cercata, andrebbe accolta come un dono, sempre.

E se la situazione relativa alla contraccezione classica non è così rosa e fiori, altro capitolo è quella d'emergenza: le famose – o meglio, famigerate sarebbe il termine più corretto – pillole del giorno dopo e dei 5 giorni dopo. La contraccezione di emergenza si basa su un semplice principio: in caso di bisogno, questi farmaci ritardano l'ovulazione, impedendo la fecondazione dell'ovulo. Se l'ovulo è già stato fecondato, non provocano alcun tipo di effetto perché non sono abortive. Spesso e volentieri le donne che desiderano ricorrere a questo tipo di contraccettivo d'emergenza si trovano ad affrontare situazioni tra l'imbarazzante e l'umiliante: non è raro, infatti, sentire racconti di esperienze grottesche vissute in pronto soccorso o ambulatorio. La percentuale dei ginecologi obiettori di coscienza in Italia è molto alta, ma la legge 194 parla chiaro: l'obiezione è prevista solo per l'aborto, la contraccezione ne è totalmente esclusa. Con l'introduzione di Ellaone, la pillola dei 5 giorni dopo, che da maggio 2015 è vendibile liberamente a donne maggiorenni senza bisogno di alcun tipo di ricetta, numerosi farmacisti però hanno iniziato a opporre un inesistente diritto all'obiezione di coscienza. Ed è praticamente impossibile reperire Ellaone in farmacia.

Chi decide sull'utero in affitto

Al dibattito in Aula sul ddl unioni civili si è accompagnata una violenta – e per lo più isterica – discussione sulla maternità surrogata. I contrari alla gestazione per altri si sono schierati per i diritti – oltre che dei bambini – delle donne, i cui corpi "non sono forni" dove, per usare le parole del ministro della Salute Beatrice Lorenzin, "far cuocere una torta; la torta di un altro, che quando la torta è cresciuta al punto giusto, spegne il forno, prende la torta e la porta via". Su questa linea sono state avanzate ipotesi varie di criminalizzare la pratica. Appelli sono arrivati anche da gruppi "femministi" – Se Non Ora Quando – Libere – chiedendo che "l'utero in affitto" venga bandito in tutta Europa. Uno degli argomenti che unisce i contrari e i dubbiosi a proposito della gpa è lo sfruttamento delle donne che si prestano come donatrici di utero per la pratica della maternità surrogata. Numerose inchieste hanno rivelato che in diversi paesi più poveri, donne indigenti si prestano a portare in grembo il figlio di qualcun altro per guadagnare qualcosa con cui vivere. Ma per quanto la pratica dello sfruttamento sia odiosa, esistono paesi in cui le donne che si offrono non lo fanno per indigenza. Insomma, non si può mettere tutto in un grande calderone.

Nascosto sotto un certo paternalismo e allarmismo, anche il tema della gestazione per altri contiene quello della libertà di scegliere. Secondo il segretario dell'Associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo, "utilizzare come spauracchio la possibilità dello sfruttamento e non pensare che ci possano essere donne che, in modo cosciente e responsabile, se la sentano di intraprendere un percorso di nove mesi per una gravidanza per aiutare chi non può averla è un voler mettere da parte il sentire femminile". Il dibattito finora in Italia è stato viziato, "come se la donna non avesse più la capacità di scegliere e di decidere per se stessa". Chi parla di corpo delle donne e "forni" lo fa pensando di proteggerle, ma in questo modo le rende ancora più oggetti e ancora meno pensanti: l'utero non va affittato, ma non si può neanche decidere cosa farne.

Quote rosa, l’inferiorità della donna sancita per legge?

Come ogni anno, complici i festeggiamenti e le celebrazioni per la festa della donna, si torna a parlare dell'annosa e irrisolta questione: "Quote rosa sì, quote rosa no?" I favorevoli sostengono che l'obbligo di riservare una percentuale di posti alle donne – nei Cda, nei consigli comunali, nelle aziende – possa in qualche modo aiutarle a ottenere possibilità di carriera altrimenti negate in quanto rappresentanti di sesso femminile. Le quote rosa come libertà di scelta femminile, sostengono le "Snoq" e femministe di ogni risma e specie. Nella realtà dei fatti, però, le quote rosa altro non fanno che sancire e consacrare l'inferiorità di genere per legge. La rivoluzione non viene quindi promossa facendo leva sulla base culturale, ma viene semplicemente imposto un obbligo: dato che la donna sembra non essere assolutamente in grado di farsi strada da sola, ne imponiamo la presenza. E il merito? Viene valutato il merito della quota rosa? No, a quanto pare sembra essere poco importante, l'importante è che si introducano delle donne in aziende e giunte comunali. I dati, però, parlano chiaro: come riporta un articolo pubblicato dal Sole24Ore, nonostante la Legge 215 del 2012 e il successivo Ddl n. 56/2014 che di fatto ha blindato l'introduzione delle quote rosa in politica, la situazione non è affatto mutata: "In ben 1766 comuni, al voto tra il 2011 e il 2015, risulta una rappresentanza femminile inferiore al 40 per cento (anche in quelli che hanno votato dopo il 2014). Di questi 288 sono monosex. Ottantacinque hanno espresso un sindaco donna, ma le giunte risultano comunque formate prevalentemente da uomini".

La legge esiste, che succede quindi? Le testimonianze di alcuni attivisti politici impegnati nella compilazione delle liste delle campagne elettorali degli ultimi mesi circa l'inserimento dell'obbligo di parità di genere sono poco lusinghiere. La conseguenza diretta della legge è stata diversa da ciò che il legislatore prospettava introducendo l'obbligo rosa: alcuni partiti per non rischiare l'annullamento della lista elettorale, hanno inserito donne che non avevano alcuna intenzione di fare politica, solo servivano per riempire i buchi che si sarebbero creati a causa dell'invenzione delle quote rosa coercitive.

I fatti, nella vita reale di tutti i giorni, stanno in maniera molto differente. La quota rosa è prevista in vari ambiti, ma allo stesso tempo questa concessione elargita con tanta generosità non tiene conto che gli strumenti imprescindibili per far sì che una donna possa avere le stesse possibilità di carriera di un qualsiasi uomo sono altri: politiche fiscali e politiche di welfare adeguate, la creazione di un sistema che incentivi il merito e valuti le reali competenze di una persona a prescindere dal sesso di appartenenza o dall'età del soggetto, finendo per sbarrare le porte a chi magari ha più competenze – è più bravo, insomma – ma ha le caratteristiche biologiche sbagliate. Le "quote rosa" non sono sinonimo di libertà di scelta, anzi sanciscono per legge l'inferiorità biologica, sociologica e culturale della donna. Non sono una conquista di civiltà, sono una ghettizzazione consapevole e cosciente legittimata per legge.

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