Non ditelo troppo forte, ma forse le banche europee hanno voltato pagina e si preparano a sostenere la ripresa, il che non è certamente un male ma non significhi sia automaticamente un bene per l'economia italiana. Secondo i dati diffusi in giornata dalla Bce, infatti, a marzo un incremento dello 0,1% su base annua (e dello 0,2% rispetto a fine febbraio) ha interrotto una serie ininterrotta di cali che si registrava dal maggio 2012. Il punto più duro della crisi del credito europeo si è toccato tra agosto 2013 e maggio 2014, periodo in cui la contrazione su base annua dei prestiti era risultata pari o superiore al 2%.
Per riuscire in questa impresa, che per il momento non produce alcun risultato concreto a livello di mercato del lavoro in Italia come hanno crudamente evidenziato i dati dell’Istat relativi a marzo che anzi mostrano un aumento della disoccupazione dal 12,7% al 13% (dal 42,8% al 43,1% per i giovani sotto i 25 anni), ma che qualche effetto lo produce in Eurolandia (ed in particolare, secondo i dati Eurostat in Irlanda, Spagna e Polonia, che registrano il calo più consistente del tasso di disoccupazione rispetto al marzo 2014), la Bce ha dovuto premere sull’acceleratore delle “misure non convenzionali” e fornire alle banche quella liquidità extra, derivante dalla cessione alla stessa Bce di attività di mercato (in sostanza titoli di stato e obbligazioni societarie, oltre a un modesto ammontare di crediti cartolarizzati), necessaria a sostenere la ripresa dell’attività creditizia.
Le banche europee, cioè, impiegano la loro liquidità per fare nuovi prestiti, anche perché in parallelo la Bce oltre a fornire la liquidità con la propria azione continua a tenere bassi i tassi, che anzi sulla parte brevissima della curva (ma in più di un caso anche sulla parte medio-lunga) sono ormai leggermente negativi anche in termini nominali, rendendo dunque poco conveniente mantenere la liquidità investita in titoli a reddito fisso. Non resteranno così in eterno, cosa che dovrebbe suggerire a tutti di aumentare gli sforzi per agganciarsi/sfruttare il trend “virtuoso” di ripresa dell'attività creditizia, visto che la deflazione pare sulla strada dell’essere sconfitta: l’inflazione è infatti tornata a marzo a zero su base annua in Eurolandia, informa sempre Eurostat, con incrementi dei prezzi di alimentari, alcol e tabacchi, ma anche dei servizi (e molto più lievemente dei beni industriali non legati all’energia) che hanno compensato il calo ancora marcato su base annua dei prezzi dell’energia.
Tutto sommato il quadro è se non perfetto più che positivo, e dunque un grazie a Mario Draghi va certamente detto, perché come detto tante volte la deflazione in astratto rischia di essere un ulteriore problema per paesi molto indebitati come l’Italia nel momento in cui finisce col far crescere in termini reali tassi nominali modesti, ma al tempo stesso può essere una benedizione se si scompone nei suoi fattori esattamente come è per il momento, con prezzi dell’energia (e dei trasporti per la parte legata al costo industriale dei carburanti) bassi e qualche modesto incremento dei prezzi di beni alimentari, generi industriali e servizi, che possono migliorare i margini di redditività delle aziende evitando che le stesse debbano continuare a ricorrere unicamente e solo al taglio dei costi, in primis di quello del lavoro, per cercare di ottenere lo stesso effetto.
Perché allora l’economia italiana continua ad avere un andamento così stentato? Perché, come detto fin da tempi non sospetti, l’Italia ha anzitutto un problema culturale enorme: resta sistematicamente ancorata a produzioni di beni e servizi mature, in cui la concorrenza scivola inevitabilmente più sul versante del costo che della qualità o del grado di innovazione. Poi ha una sovrastruttura fiscale opprimente e confusa, un apparato legislativo farraginoso, una macchina pubblica spesso ancora inefficiente e troppo burocratizzata. Ogni riforma poi, che tocchi le pensioni o la legge elettorale, genera infinite discussioni e ricorsi fino all’ultimo grado di giudizio e spesso si conclude col riconoscimento dei “diritti acquisiti” e lo smantellamento in tutto o in parte delle riforme, che spesso non sono di buona qualità ma di questo passo il paese non si riformerà né bene né male, né tanto né poco. Semplicemente morirà di vecchiaia.
Così non sorprende che anche le nostre banche siano in generale vecchie e legate a modelli organizzativi e gestionali che stentano a tenere il passo con l’evoluzione del mercato, inteso sia come clienti potenziali sia come esigenze da questi espresse. Vecchie, ancora malandate (le sofferenze nette erano a fine febbraio pari a 79,3 miliardi, poco meno degli 81,3 miliardi di fine gennaio) e incapaci per ora di cogliere i segnali di ripresa che si notano in Europa. Così a marzo, secondo l’Abi, i prestiti erano ancora in calo dell’1,68% su base annua (si è passati da 1.851 miliardi di prestiti a 1.820 miliardi), quelli alle sole famiglie e imprese dello 0,9% (a 1.409 miliardi), mentre la raccolta è risalita a 1.699 miliardi dai 1.696 miliardi di febbraio (pur mostrando un calo dell’1,41% su base annua), in particolare grazie a quasi 1.268 miliardi di depositi (+3,58% su base annua).
Come dire che la convalescenza delle nostre banche è ancora lenta, più di quella delle principali concorrenti europee e che il gap apertosi tra le economie dei paesi del Nord Europa (ma non solo, visto l’andamento recente di Irlanda e Spagna) e l’Italia rischia di non chiudersi tanto rapidamente, semmai di accentuarsi ulteriormente. Ma su questo ben poco possono fare Mario Draghi e la Bce: toccherebbe a Matteo Renzi provare a fare qualcosa di concreto al di là dei proclami, peccato che per ora non sembri averne avuta la capacità o la forza. Andrà meglio in futuro?