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Le banche europee restano affamate di capitali

Quanti soldi servano ancora alle banche europee per lasciarsi alle spalle la crisi nessuno sembra saperlo con precisione, ma gli ultimi annunci in arrivo, dall’Italia alla Gran Bretagna, non promettono nulla di buono. Eppure…
A cura di Luca Spoldi
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Una “bomba” a orologeria continua a minacciare i contribuenti europei: nonostante ripetuti allarmi e un accordo, minimale, raggiunto a fine giugno in merito alla possibilità di utilizzare il fondo Esm (European Stability Mechanism) per ricapitalizzare direttamente le banche del vecchio continente maggiormente in crisi, fino a un massimo di 60 miliardi di euro (rispetto ad una stima di 80 miliardi di “gap” di capitali indicata dalla stessa Ue a fine 2011), non è ancora chiaro di quanto denaro avranno realmente bisogno le banche europee. Nonostante la vulgata comune, non si tratta di “regalare” niente a nessuno: secondo l’Fmi un paio d’anni or sono alle banche europee necessitavano almeno 200 miliardi (ma banche d’affari come Morgan Stanley indicavano cifre anche superiori, attorno ai 275 miliardi) per raggiungere la soglia del 9% di Core Tier 1, ritenuta “salvifica” anche nella peggiore delle ipotesi.

Un livello, cioè, tale da consentire alle banche sistemiche europee di sopportare l’emergere di sofferenze sui propri crediti ben oltre i livelli “normali”, a causa di una crisi che in parte è conseguenza della volontà “moralizzatrice” della Germania di risolvere la crisi del debito con una politica unicamente di repressione fiscale che viene a incidere mentre le banche stanno attuando una forte “stretta” sul credito. Ridurre di pari passo il debito pubblico (con un inasprimento fiscale senza precedenti e con l’invito ad attuare riforme strutturali e privatizzazioni in astratto condivisibile, nel concreto però dagli esiti alquanto dubbi vista la tempistica e il “rischio di esecuzione” che ho sottolineato anche ieri e di cui nel frattempo sembra essersi accorta la stessa  Ue) e il debito privato (che come segnala Maurizio Sgroi resta sostanzialmente stabile attorno al 70% per le famiglie europee e superiore al 100% per le imprese del vecchio continente, a fronte spesso di patrimoni “illiquidi”, ossia investiti in immobili, terreni o attrezzature) non è mai una buona idea.

Farlo poi durante una crisi economica parzialmente auto-indotta è ancor più insensato, non bastando la valvola di sfogo delle esportazioni a compensare il crollo verticale della domanda interna, specie in un mondo sempre più integrato dove la domanda estera è in parte dipendente da una crescita che prosegue fintanto cresce la domanda dei paesi sviluppati dell’Occidente (ma gli Stati Uniti difficilmente potranno aumentare ancora le importazioni, visto i loro squilibri economico-finanziari, mentre il Giappone non è detto riesca nella scommessa di tornare a correre dopo decenni di immobilità e l’Europa per quanto convalescente non sembra certo scoppiare di salute). Così non sorprende che i riflettori restino accesi sulla necessità di capitali delle banche e non solo su quelle spagnole o italiane, ma anche su quelle inglesi, francesi o tedesche.

Se nel nostro paese Banca d’Italia ha fatto sapere che in 20 gruppi bancari grandi e medi cui fa capo il 40% del totale dei crediti deteriorati italiani il tasso di copertura dei crediti “era inferiore alla media o aveva registrato diminuzioni significative” e che per 8 dei 20 gruppi bancari esaminati le verifiche condotte da Via Nazionale in questi mesi “sono state estese a tutto il portafoglio crediti, interessando in alcuni casi l’intera operatività del soggetto vigilato” (e “in questi casi le verifiche ispettive in loco sono ancora in corso”, dunque potrebbero emergere ancora sorprese spiacevoli), da parte sua la seconda maggiore banca britannica, Barclays, ha dovuto annunciare oggi il lancio di un aumento di capitale da 5,8 miliardi di sterline con un forte sconto (il 40% rispetto ai valori di ieri, quando il titolo aveva già chiuso in calo) perché al 30 giugno scorso il rapporto tra patrimonio e attività di bilancio della banca non superava il 2,5%.

Se si pensa che tale rapporto dovrà (entro il giugno del prossimo anno) risalire almeno sopra il 3%, dunque che vi è per la banca britannica la necessità di reperire 12,8 miliardi di sterline, si capisce perché l’aumento di capitale sarà accompagnato da un lato dalla riduzione degli attivi a rischio per 80 miliardi a 1.500 miliardi di sterline in totale (il che significa che la banca ridurrà, come stanno facendo molte banche italiane ed europee, la propria attività di finanziamento all’economia reale), nonché da un’emissione da 2 miliardi di sterline di Co.Co bond (“contingent capital bond”), obbligazioni che prevedono la conversione automatica in azioni in caso di particolare stress finanziario dell’emittente, dalla cessione di 2-2,5 miliardi di asset e da un ulteriore taglio  dei costi per 1,7 miliardi l’anno (il che comporterà l’eliminazione di altri 3.700 posti di lavoro).

Insomma: spiace dirlo ma il peggio non sembra alle spalle per il settore bancario e l’ottimismo che sembra aver contagiato e imprese italiane (l’indice Esi che misura la fiducia nello scenario economico è infatti cresciuto a luglio in Italia di 2,9 punti rispetto a un incremento medio di 1,2 punti dell’Eurozona) è certamente benvenuto ma andrà ancorato solidamente alla realtà, pena dolorosi “risvegli” ex post. Il problema che alcuni non sembrano ancora capire è infatti che i “risk weighted asset” che tanto preoccupano autorità e governi, che temono il ripetersi della crisi finanziaria 2008-2009, non sono solo e tanto gli investimenti finanziari (anzi, quelli in titoli di stato erano considerati fino a pochi anni or sono “privi di rischio”) ma proprio quelli alla “economia reale”. Che si può fare per sbloccare l’empasse? Prendere tempo, come fa Mario Draghi, fare riforme, come dovrebbero fare i governi europei, sperare che tutto fili liscio e che il patto sociale (meno uova oggi per qualche gallina in più domani) regga. E che le banche, poco alla volta, riescano a ricapitalizzarsi e a tornare a operare in condizioni “normali”, dando anche loro una mano.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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