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La violenza sulle donne non è un’emergenza, ma un problema strutturale della società

La questione della violenza di genere in Italia viene affrontata sempre in un’ottica emergenziale. In questa direzione va anche la legge sul femmincidio del 2013, una specie di “pacchetto sicurezza”. Eppure il problema esiste, e ci sarebbero gli strumenti per prendersene carico in maniera radicale: attraverso il potenziamento dei centri antiviolenza e la prevenzione.
A cura di Claudia Torrisi
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One Billion Rising - Flash mob contro la violenza sulle donne

La notte tra sabato e domenica una ragazza di ventidue anni è stata ritrovata semicarbonizzata in via della Magliana a Roma. A ucciderla è stato l'ex fidanzato ventisettenne: ha dato fuoco prima alla sua auto e poi a lei. "In 25 anni di questo lavoro non ho mai visto una cosa così atroce", ha commentato il capo della squadra mobile di Roma Luigi Silipo. Il motivo di questo gesto orribile, stando a quando confessato dal ragazzo – che è stato fermato il giorno successivo al ritrovamento -, sarebbe la fine della relazione tra i due, e il fatto che la ventiduenne stesse iniziando a frequentare un altro.

Da quando i contorni della vicenda hanno iniziato a farsi più chiari, si è ricominciato a parlare di "femminicidio" e violenza sulle donne. L'episodio che ha colpito la ventiduenne di Roma, sebbene abbia scosso le coscienze di molti perché particolarmente orribile e cruento, però, non è affatto isolato. Una decina di giorni fa in provincia di Milano un uomo di 33 anni ha ucciso con diverse coltellate la compagna, di dieci anni più giovane, e poi ha tentato di togliersi la vita. Ad aprile, a Roma, un uomo è entrato in un bar di Lunghezza e ha sparato alla moglie; a gennaio a Giugliano, nel napoletano, un altro ha ammazzato moglie e figlia di quattro anni con un'accetta; mentre a ottobre una ventenne è stata accoltellata dall'ex fidanzato a Nicolosi, alle pendici dell'Etna. Una lista parecchio lunga, che suggerisce che – lasciando perdere il termine "femminicidio" in sé e per sé – un piccolo problema di violenza di genere esiste.

A ottobre del 2013 il Parlamento ha licenziato una legge sul "femminicidio", un provvedimento di undici articoli, non tutti dedicati alla violenza contro le donne. Una questione che, al momento dell'approvazione, ha creato parecchie polemiche. Nella legge, in pratica, c'è una parte dedicata al tema violenza di genere – pene più severe, denunce, aggravanti nel caso di mariti o compagni – e poi altri capitoli con argomenti random: dalle rapine agli anziani, al furto di rame, all'abolizione delle provincie, fino a misure contro il movimento NoTav. Sostanzialmente una specie di "pacchetto sicurezza".

Secondo Celeste Costantino, deputata di Sel da tempo impegnata sui temi della violenza di genere, il primo problema è proprio questo: "La questione viene affrontata sempre in una dimensione emergenziale e non strutturale. Ha sempre funzionato così: davanti alla morte o all'accumularsi di più morti di donne si sono fatti decreti. Basti pensare al caso di Giovanna Reggiani". Il ripetersi di episodi di questo tipo – spesso ravvicinati – "scuote l'opinione pubblica e la risposta è solitamente quella di immaginare decreti, piani straordinari come se fossimo davanti a una calamità naturale. Quando invece i dati ci dicono che c'è una costante nel corso del tempo. Questo vuol dire che strutturalmente il nostro paese è attraversato da un fenomeno che va affrontato per quello che è. Qualcosa che esiste e con cui bisogna fare i conti".

L’istituto di ricerche economiche e sociali Eures, nei primi cinque mesi del 2016 ha contato 55 donne uccise da compagni o ex compagni. Quarantatré di questi casi sono avvenuti all'interno del nucleo familiare, ventisette della coppia. Nello stesso periodo dell'anno scorso la cifra era di 63 donne, un calo, secondo il presidente di Eures Fabio Piacenti, "leggero, non così significativo e comunque inferiore a quello che ci sarebbe aspettati". Anche perché negli ultimi dieci anni, invece, il numero è in aumento: 1740 casi, di cui 1251 all’interno della famiglia, 846 di morte per mano di un fidanzato e 224 di un ex. Anche i dati riguardanti episodi di violenza non necessariamente sfociati in omicidio non sono certo esaltanti. Gli ultimi, quelli diffusi dall'Istat, parlano di 6 milioni e 788 mila donne che hanno subito nel corso della propria vita qualche forma di violenza, il 31,5% della popolazione femminile tra i 16 e i 70 anni. Per questo motivo, probabilmente, quando il ministro dell'Interno Angelino Alfano lo scorso 18 maggio ha annunciato che le donne uccise da un partner o un ex in Italia tra il 2013 e il 2016 "sono state 452, l’8,5% in meno del triennio precedente", le associazioni non hanno espresso grande soddisfazione. E, anzi, si sono dette preoccupate per dati "allarmanti e sottostimati".

Il problema riesplode ad ogni caso cruento, eppure per lo più viene preso sotto gamba. Per molti mesi il dipartimento Pari opportunità è rimasto senza un responsabile, nonostante le lamentele di associazioni e operatori, che hanno parlato di "vuoto istituzionale che ha finora rallentato e ostacolato le azioni governative necessarie e promesse dall’attuale governo". Solo lo scorso 10 maggio il il Consiglio dei ministri ha dato la delega a Maria Elena Boschi. Gli strumenti ci sarebbero ma vengono applicati in maniera inefficace. Ad esempio l'Italia ha ratificato la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica del Consiglio d'Europa, che prevede un impegno in diverse direzioni: dai finanziamenti alla prevenzione. Un testo, però, applicato solo nei suoi punti più securitari, cioè "quelli a costi zero. Perché se decidi solo un inasprimento delle pene non ci devi mettere un euro", dice Costantino. Invece, il problema della prevenzione è il punto più importante perché "è del tutto evidente che il femminicidio è la punta di un'iceberg. Le vittime hanno sicuramente vissuto una condizione di violenza propedeutica preparatoria a quell'uccisione. Bisogna provare a intervenire e rafforzando le strutture che si occupano di donne vittime di violenza, i centri, che però nel nostro paese non godono di ottima salute".

I centri antiviolenza

La convenzione di Istanbul prescrive di sostenere questi centri. Il governo con la "legge sul femminicidio" ha stanziato 17 milioni di euro (diventati poi 16 milioni e 450 mila) per il biennio 2013/2014 destinati alle case anti violenza e ai centri rifugio per donne in difficoltà. Secondo una ricerca pubblicata lo scorso novembre da ActionAid, però, solo sette amministrazioni locali fanno sapere in modo chiaro e trasparente come stanno utilizzando i fondi. Per le altre i dati sono frammentari, deducibili reperendo altri atti amministrativi o recuperabili a causa del numero ridotto di strutture presenti. Per il resto delle Regioni non è stato invece possibile reperire alcun dato.

Sempre a novembre Di.Re aveva denunciato che gran parte di quanto stanziato nel 2013/2014 non era arrivato a destinazione. Tra l'altro, "in sole sei Regioni c’è stato confronto fra l’Ente locale e le Associazioni per impostare la spesa. Nella stragrande maggioranza delle Regioni i finanziamenti non sono ancora stati spesi e talvolta non si è provveduto neppure all’impegno. Molti uffici regionali tendono a distribuire le risorse a fruitori non specializzati, anche senza alcuna esperienza. Manca una valutazione delle priorità per le donne che subiscono violenza, che può essere fatta soltanto ascoltando i Centri e le Case che operano già da anni e conoscono bene le fragilità del sistema".

Come scrive Paola Tavella sull'HuffingtonPost, "quando vengono prese le decisioni i centri sono consultati con degnazione, ascoltati torcendo la bocca, e infine finanziati raramente e a singhiozzo. Ben pochi di loro per esempio hanno il denaro sufficiente per gestire case rifugio". Tra l'altro, "l'Unione Europea raccomanda un centro antiviolenza ogni 10.000 persone e un centro d'emergenza ogni 50.000 abitanti, quindi in Italia dovrebbero esserci 5.700 posti letto per chi fugge da un violento o da uno stalker, e invece ce ne sono solo 500".

Costantino nel 2013 ha fatto un "viaggio in oltre 20 centri antiviolenza italiani". La situazione che ha trovato è stata di "precarietà assoluta, perché ogni centro deve presentare annualmente dei progetti e sperare che gli vengano rifinanziati ogni anno dagli enti locali, quindi dai comuni e dalle Regioni. E già questo fa capire molto su come il nostro paese affronti questo tema: se riconosciamo che questo fenomeno esiste, non si può demandare agli enti locali il fatto che luoghi come i centri antiviolenza continuino ad esistere o no". Eppure sarebbero gli unici avamposti in grado di costruire una cultura della denuncia. "Io penso che ci debba essere una posizione nazionale su questo. E la ministra Boschi dovrebbe iniziare a dire qualcosa su come si pensa di potenziare e finanziare queste strutture", ha aggiunto Costantino.

Le denunce e le prassi giudiziarie

Secondo le legali delle case delle donne e dei centri antiviolenza della D.i.Re, nel nostro paese sarebbero diffuse alcune prassi giudiziarie che minano l'attuazione degli obiettivi della Convenzione di Istanbul. Per l'associazione, "l’accesso alla giustizia e la conseguente richiesta di tutela per la propria incolumità psicofisica è pregiudicato dalla non tempestività dell’intervento da parte degli operatori coinvolti in violazione degli articoli 49 e 50 della Convenzione". Le forze dell'ordine "non sempre trasmettono con immediatezza la notizia di reato alle Procure, così ritardando l’immediata iscrizione della notizia di reato e lasciando la donna priva di tutela proprio nel momento di massimo rischio per la sua incolumità". Dopo la presentazione della denuncia, infatti, solitamente l'uomo diventa più violento, per punire la scelta della donna.

Le legali lamentano poi il fatto che spesso l'autorità giudiziaria sottovaluti la pericolosità dell’uomo violento: "non si applicano le misure cautelari idonee a prevenire fatti di violenza più gravi di quelli denunciati, poche volte si procede, in caso di violazione della misura cautelare, all’aggravamento delle stesse, troppo spesso la misura cautelare perde di efficacia prima della sentenza di primo grado". Prassi che per l'associazione violano gli obblighi della Convenzione. "Non è un caso che nella maggioranza dei casi le donne sono state uccise dai partner o ex partner dopo aver presentato la querela".

Prevenzione ed educazione

Quello che va fatto, secondo Costantino, è "decostruire i modelli violenti che si insinuano all'interno delle persone, tanto degli uomini e quanto delle donne. C'è chi applica violenza, ma anche chi se la fa fare, quindi si insinua un meccanismo perverso di dipendenza dal proprio carnefice. Bisogna fare in modo di prevenire questo meccanismo. Un lavoro del genere è previsto dalla Convenzione di Istanbul, ad esempio".

Un'altra prescrizione prevista dal testo del Consiglio d'Europa è la previsione all'articolo 14 di una forma di educazione all'affettività nelle scuole di ogni ordine e grado:

Le Parti intraprendono, se del caso, le azioni necessarie per includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti interpersonali, la violenza contro le donne basata sul genere e il diritto all'integrità personale, appropriati al livello cognitivo degli allievi.

Una proposta di legge del genere era stata avanzata almeno tre anni fa dalla deputata di Sel: introdurre una sorta di educazione sentimentale nelle scuole, nel presupposto che la violenza di genere sia un fenomeno strutturale. Come ha denunciato lei stessa, però, nonostante in questi anni si sia "battuta in parlamento per riuscire a discuterla o almeno per fare inserire degli emendamenti che andassero in questa direzione nelle leggi che hanno affrontato il tema della scuola", nulla è stato fatto. Soprattutto da quando è nato anche lo "spettro del gender". Sono percorsi che esistono in alcuni istituti grazie a "dirigenti scolastici illuminati", ma non sono sistematizzati a livello nazionale.

Lo scopo di un'educazione "all'affettività" nelle scuole è, ha spiegato Costantino, "decostruire stereotipi di genere, attraverso psicologi, specialisti che sappiano affrontare paure, inquietudini e atteggiamenti degli adolescenti. Se non si applica un sistema del genere – che esiste in tutta Europa tranne che da noi e in Grecia – il rischio oramai verificato è che i ragazzi queste risposte le vadano a cercare altrove, andando magari a finire nelle mani sbagliate. E questo produce dei guasti ancora più pesanti. Si arriva a pensare di poter possedere una persona".

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