La direttiva BRRD, quella per intenderci entrata in vigore il primo gennaio 2016 e che prevede l’adozione di una procedura di “bail in”, ovvero di “burden sharing” che ripartisca l’onere di un salvataggio bancario anzitutto sui capitali privati prima eventualmente di consentire l’intervento di fondi pubblici, ossia di far gravare il costo sui contribuenti, ha dimostrato di essere efficace. Lo ha dimostrato non in Italia, dove negli scorsi giorni è arrivato l’atteso via libera (condizionato) alla “ricapitalizzazione precauzionale” per Mps e dove si spera possa arrivare anche un’analoga autorizzazione per Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca, ma in Spagna.
Il Banco Popular Espanol, infatti, dopo aver ripetutamente dichiarato di non correre rischi (solo due giorni fa il presidente Emilio Saracho aveva dichiarato che la banca era solvente e disponeva di un capitale positivo per cui non avrebbe rischiato un bail in) è stata oggi ceduta per un euro a Banco Santander. Questo a seguito dell’intervento del Single Resolution Board europeo che ha constatato anzitutto come la banca stesse fallendo o fosse comunque probabilmente fallita a breve, come non vi fossero “prospettive ragionevoli che alcuna misura alternativa del settore privato o azione del supervisore prevenga il fallimento dell’istituto in un lasso di tempo ragionevole” e come “la risoluzione fosse necessaria per il pubblico interesse”.
Esattamente le tre condizioni che debbono essere accertate per poter dare il via ad un’operazione che prevede, nell’ordine, l’azzeramento delle azioni (considerate Common equity Tier 1), dei bond “Additional tier 1” (AT1), della conversione dei bond “Additional tier 2” (AT2) in nuove azioni, queste ultime girate appunto al Banco Santander per il valore simbolico di un euro, per un totale di 3,3 miliardi di euro di oneri addossati ad azionisti e obbligazionisti subordinati. L’operazione salva invece gli obbligazionisti senior e i depositanti anche sopra i 100 mila euro per conto, addossando all’acquirente l’onere di procedere a ulteriori pulizie di bilancio.
In particolare Banco Santander, che ha subito annunciato un aumento di capitale da 7 miliardi, procederà a svalutare di ulteriori 7,2 miliardi (su 7,9 miliardi di svalutazioni complessive) il portafoglio immobiliare, origine dei problemi della banca, rimasta “scottata” dall’esplosione della bolla immobiliare spagnola nel 2008 e da allora mai più completamente ripresasi, nonostante due aumenti di capitale, nel 2012 per 3,2 miliardi e nel 2016 per altri 2,8 miliardi, nel frattempo quasi completamente bruciati visto che ieri sera la capitalizzazione di Banco Popular era calata sotto gli 1,5 miliardi (ora andati definitivamente in fumo).
L’operazione ha avuto un sapore chirurgico, visto la rapidità dei tempi (meno di 48 ore dalle voci di una possibile richiesta di aiuto alla conclusione della vicenda) e la determinazione nella ripartizione dei costi. Sarebbe possibile anche in Italia assistere a un esito analogo per le due banche venete, ora che Mps sembra in salvo, essendo stata concessa la ricapitalizzazione precauzionale da 8,8 miliardi di cui 6,6 miliardi a carico dello stato (che diverrà azionista fino al 70% di Mps) e che sembra essere già stata avanzata una prima offerta di circa 300 milioni di euro per la tranche junior/mezzanine da 1,5-1,6 miliardi di euro (rientrante in una cessione di circa 27 miliardi di euro di crediti “marci”, o Npl), cifra che equivale ad una valutazione tra il 18% e il 20% della parte più rischiosa e rende dunque meno arduo spuntare un prezzo tra il 20% e il 30% per la parte meno rischiosa, destinata a investitori istituzionali e assistita dalle garanzie statali (Gacs)?
In teoria sì, in pratica è una scelta squisitamente politica: mentre in Spagna, paese che negli scorsi anni aveva già chiesto e ottenuto 40 miliardi di euro di aiuti per il proprio sistema bancario dai fondi europei, si è scelta la strada più rapida ed economicamente razionale, nel “bel paese” da mesi si prova a tirar calci al barattolo, guadagnando tempo, sperando che nel frattempo le valutazioni delle sofferenze risalgano (cosa in parte avvenuta) e riducano i costi di salvataggi che si vorrebbe fortemente, se solo fosse ancora possibile, addossare al settore pubblico, secondo l’usuale consuetudine per cui banche e imprese “spartiscono” le perdite con tutti i contribuenti salvo mantenere rigorosamente privati gli utili.
In Italia abbiamo demonizzato il “bail in” (e la direttiva BRRD), prevedendo scenari catastrofici e rischi “sistemici” anche quando, come nel caso di Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti o CariFe ma pure di Bpvi e Veneto Banca, si tratta di istituti i cui crediti “in bonis” (una trentina di miliardi nel caso dei due istituti veneti, certo non bruscolini) rappresentano una frazione del totale italiano (meno del 2% nel caso veneto), ed invocando l'aiuto “spintaneo” delle banche sane con soluzioni fin dall'inizio apparse gracili come il fondo Atlante e i contributi volontari al fondo di tutela interbancario.
Un atteggiamento che non ha portato ad una soluzione, ma solo rinviato la stessa e ridotto gradualmente le speranze al solo ottenimento di uno sconto dei costi da pagare. Sconto che, alla fine, potrebbe pure essere concesso dalle autorità e dai mercati, e il miliardo di euro che secondo insistenti e non smentite indiscrezioni la Commissione Ue avrebbe chiesto alle due banche venete per concedere una procedura di ricapitalizzazione precauzionale (a proposito: quella di Mps non potrà vedere l’utilizzo dei capitali versati dallo stato per fare acquisizioni, magari proprio di una o entrambe le banche venete) potrebbe ridursi, consentendo ai due istituti di trovare qualche investitore disposto a correre il rischio, magari sottoscrivendo anziché azioni bond AT1 o AT2 che pagherebbero interessi certo non vicini a zero.
Un ulteriore aiuto potrebbe venire dalla campagna di cessioni da tempo avviata e che potrebbe vedere l’uscita di Bpvi e Veneto Banca (attualmente socia per il 40% complessivo) da Arca Sgr (e da Bim Suisse, controllata elvetica di Banca Intermobiliare, a sua volta controllata all’80% da Veneto Banca), sempre che si trovi anche in questo caso il prezzo giusto. A fine 2015 il Banco Popolare aveva ceduto il proprio 19,9 per 95 milioni, valutazione che oggi garantirebbe un incasso di 190 milioni ai due istituti controllati dal fondo Atlante (che nella vicenda ha già bruciato 3,5 miliardi e che non intende investire ulteriori capitali), ma in questi giorni qualcuno ha parlato di cifre anche più alte, attorno ai 280 milioni.
Cifre queste ultime, per inciso, che non piacciono all’amministratore delegato di Bper Banca, Alessandro Vendelli, che dovrebbe rilevare un 20% di Arca Sgr così da far diventare la banca emiliana l’azionista di maggioranza col 52,7% della società di gestione (mentre il rimanente 20% verrebbe spartito tra Creval e Banca popolare di Sondrio), che pure sembra intenzionato a trovare un accordo viste le sinergie potenziali e la razionalità industriale dell’operazione, stante la collaborazione già esistente tra le due società (la banca emiliana contribuisce con 8 dei 31 miliardi di euro di masse gestite di Arga Sgr).
Insomma: i pezzi del puzzle sono tutti sul tavolo, ora sta alla volontà dei giocatori riunirli e completare il quadro o continuare a dire che è impossibile trovare una soluzione alla crisi delle banche venete e più in generale del credito italiano. Nel secondo caso però sarà difficile che autorità e mercati restino a guardare oltre “un lasso di tempo ragionevole”, con tutti i rischi che ne conseguerebbero anche in termini di capacità di sostenere, o meno, la gracile ripresa in atto da parte del settore bancario tutto.