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Opinioni

La strana storia dei Forconi: la rivoluzione mai nata è già finita

Dopo il flop della manifestazione di Roma, restano ancora in piedi gli interrogativi sui “forconi” e su una protesta tutta italiana. Quella degli indignati da tastiera e degli arrivisti della piazza. Che hanno finito per far tramontare la “rivoluzione tricolore” ben prima del previsto.
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Quasi dieci giorni dopo l'emergere della questione "Forconi" e di fronte al ridimensionamento della portata della "marcia su Roma" appare alquanto arduo provare a stilare un bilancio del "fenomeno" nel suo complesso. Perché alla frammentarietà della composizione, alla eterogeneità della partecipazione, alla confusione delle rivendicazione e alla inconsistenza degli obiettivi si sono sommate la parzialità della copertura mediatica, la faziosità delle analisi e la pregiudizialità delle conclusioni dei commentatori (e da questi ultimi due punti siamo certi di non poterci auto-assolvere). Così abbiamo letto un po' di tutto, dalla propaganda di chi vedeva nei "forconi" (sì, lo sappiamo che non andrebbero chiamati così per tutti i motivi di cui sopra) i nuovi liberatori del Paese, passando per gli allarmi sulla tenuta democratica, fino ad arrivare alla ghettizzazione "a destra" delle migliaia di persone che hanno preso parte a presidi e manifestazioni.

Il punto è che, a distanza di dieci giorni, non siamo stati in grado di rispondere ad una serie di domande fondamentali e siamo stati (tutti) costretti ad una ricostruzione per così dire aneddotica, isolando frammenti, estrapolando dichiarazioni, creando a tavolino leader ed oppositori. Un'operazione anche legittima, date le circostanze, ma senza dubbio discutibile. Anche perché, nella sostanza, non è semplice definire "chi sono, quanti sono, cosa vogliono, quanto dureranno e che speranze hanno". Per la verità sulla risposta alla prima questione qualcosa si è mosso e, superata la definizione standard ("Sono la gente"), c'è qualche elemento comune alle varie analisi: un nucleo originario (siciliano, meridionale e meridionalista) cui negli ultimi mesi si sono affiancati gruppi territoriali più o meno organizzati e che è cresciuto nei numeri grazie ad una fitta rete di relazione sui social network (facebook soprattutto, con gruppi e pagine che hanno lavorato a pieno regime, soprattutto negli ultimi giorni); una forte componente corporativa (al nucleo originario degli autotrasportatori si sono prima aggiunti, poi praticamente sostituiti, agricoltori, disoccupati, lavoratori autonomi e "piccoli sindacati di base"); gruppi territoriali preesistenti e già attivi (non a caso il picco del dissenso si è registrato a Torino, dove la protesta verso Comune – Regione era già in atto in alcune zone della città); soggetti in qualche modo "esterni", come gli ultras di alcune squadre di calcio (sulla cui partecipazione però si è sicuramente utilizzata molto enfasi); semplici cittadini, aggregati sulla scia della "crescita emozionale" della contestazione e tenuti insieme dal collante della rabbia e della disperazione dovute alla recrudescenza della crisi economica.

In tal senso vale la pena di sottolineare alcuni tentativi di analisi alternativa, che hanno evidenziato la presenza di un "agglomerato tenuto insieme più da fattori di ordine soggettivo – una sorta di “sentire comune” indotto dall’impoverimento generale causato dalla crisi, ad esempio – che da fattori di ordine oggettivo" e posto l'accento su una serie di fattori che hanno giocato una parte decisiva: "ruolo sociale delle classi medie impoverite, distorsione massmediatica, permeabilità alla retorica delle destre, crisi della direzione del movimento dei lavoratori, attacco senza precedenti del capitale, arretramento della coscienza". E, come notato altrove, è parso "tragicamente complottista e del tutto sballato pensare che ciò che sembra iniziare ad accadere sia tutto manovrato dall’alto, che faccia parte di chissà quale strategia. Di più, come ogni complottismo sarebbe autoassolvente. Se questi fenomeni si presentano è perché c’è un vuoto, un vuoto lasciato innanzitutto dai movimenti. La proletarizzazione e la sottoproletarizzazione sono fenomeni più reali e più globali dei tentativi di gestione degli stessi". Allo stesso modo, però, non va taciuto il tentativo (in parte riuscito) di gruppi politicizzati di incanalare il dissenso e la rabbia in direzione di obiettivi più concreti, che essenzialmente si riducono alla legittimazione della contestazione radicale (?) di destra.

C'è poi il discorso sui "volumi" della partecipazione alle proteste e sul reale livello di adesione cosciente di coloro che vi hanno preso parte. I numeri della contestazione non sono mai stati chiariti del tutto e, come evidenziato dal mezzo flop della manifestazione di piazza del Popolo, c'è stato un abisso fra la comunicazione / propaganda e la mobilitazione effettiva. I blocchi, i cortei, i presidi hanno certamente visto la partecipazione di migliaia di cittadini e il nucleo iniziale dei manifestanti si è ampliato in maniera costante nei giorni successivi al nove dicembre. Ma non ha mai raggiunto le dimensioni del fenomeno di massa se non nella percezione di media ed opinione pubblica. Dovuta peraltro al solito processo di catalizzazione del dissenso e del contrasto tipico dei social network, gli unici luoghi nei quali la rivoluzione costa un click o al massimo un condividi. Non che si tratti necessariamente di una forzatura, dal momento che la presenza nei nuovi luoghi della politica è oltremodo rilevante, pur tuttavia occorrerebbe capire in che modo viene alimentato (e secondo quali "indicazioni") il fuoco del populismo e del qualunquismo.

In pratica si è creata una enorme aspettativa verso un contenitore confuso, eterogeneo, pieno di falle e di contraddizioni. In questi giorni poi, abbiamo visto praticamente di tutto: dalle maschere di Fawkes (occorrerebbe un'opera di informazione sul senso e sul peso dell'utilizzo di questo simbolo, vabbeh), alle bandiere tricolore, dai saluti romani ai soliti idioti padani, dal furore antieuropeista alle foto ricordo con i poliziotti, dai capipopolo in Jaguar (ospiti, per carità) ai vecchi leader scissionisti, dai camionisti incazzati agli attivisti digitali, dagli annunci escatologici al complottismo di nuova generazione. Un vero casino, ci sia consentito il termine. E dal quale, stante anche la prudenza dei gruppi politici nazionali (Fratelli d'Italia si è esposto con una certa convinzione, mentre il Movimento 5 Stelle ha preferito "restare in attesa a metà strada", proprio per evitare un pericoloso effetto boomerang ed in ogni caso per non legittimare politicamente un possibile "concorrente" sui temi della rottamazione dell'intera classe dirigente del paese), sono emersi leader territoriali e personaggi in chiaroscuro che non sono riusciti ad evitare che una creatura così fragile si disgregasse ancor prima di concretizzarsi in un unico grande appuntamento proto-politico. Leader che hanno contribuito a restituire l'immagine ambivalente dei Movimenti, non riuscendo affatto a cementare la protesta, proprio per l'assenza di un obiettivo chiaro e sufficientemente alla portata. Del resto, un conto è firmare una petizione online per la pace nel mondo, un altro è scioperare, occupare, manifestare, magari rimetterci ulteriormente in termini materiali. Così, dopo una prima fase piuttosto caotica, con una gestione discutibile anche da parte delle forze dell'ordine che, perseguendo il sacrosanto obiettivo di evitare incidenti e problemi di ordine pubblico, hanno legittimato le critiche relative al doppiopesismo con il quale vengono gestite altre manifestazioni (sia chiaro, in termini "di contrapposizione ideologica", dal momento che il sacrosanto diritto alla contestazione deve essere garantito in ogni caso e che i primi a dover essere tutelati da chi detiene il monopolio della forza sono proprio i manifestanti).

Ancora una volta, insomma, il rischio più che concreto è che proprio il ricorso alla velleitaria formula del "tutti a casa" consentirà di far passare in secondo piano quello che è ormai un dato oggettivo: l'esasperazione di una parte sempre crescente di italiani di fronte all'immobilismo dei ceti dirigenti, all'incapacità della politica di dare risposte concrete al dramma della crisi, della disoccupazione e via discorrendo. È un vecchio adagio: alla lunga il populismo fa sempre il gioco della conservazione. Prima o poi impareremo a comportarci di conseguenza.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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