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Opinioni

La seconda Repubblica sta morendo, viva la terza Repubblica

Con la condanna di Silvio Berlusconi nel processo Mediaset la “seconda Repubblica” italiana pare a molti al crepuscolo. Viva la terza Repubblica, ma che sia fondata su competenze e voglia di fare o i problemi resteranno.
A cura di Luca Spoldi
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Mentre l’America resta lontana, decisamente “dall’altra parte della Luna” come aveva già capito Lucio Dalla, dopo un dato migliore delle attese relativo agli ordini di beni durevoli di maggio (+3,6% da aprile, +0,7% se non si tiene conto del settore trasporti, più volatile), che rilancia la possibilità che la crescita del Pil del secondo trimestre (attesa dal consensus degli analisti pari al +1,7% su base annualizzata, in frenata dal +2,4% annualizzato dei primi tre mesi dell’anno) possa risultare più solida del previsto, l’Italietta del crepuscolo della “seconda Repubblica”, segnata dalla condanna di Silvio Berlusconi nel processo Mediaset, che non si è distinta di molto dalla “prima” se non per il definitivo arresto della spinta della crescita causata da problemi talmente noti che è imbarazzante ripeterli (ma tant’è, nell’ordine: eccessiva repressione fiscale, eccessiva burocrazia e corruzione, eccessiva evasione, eccessiva cultura “delle relazioni” anziché del merito che induce le migliori competenze del paese a lasciarlo appena possibile per non farvi più ritorno), continua ad affondare con un governo che si regge più su un patto “di non belligeranza” tra i suoi  componenti che su un’autentica e forte volontà riformatrice e che pertanto è incapace di risolvere alcuno dei problemi che di tanto in tanto prova a segnalare.

Così fa sorridere (amaramente) la dichiarazione “battagliera” di Enrico Letta circa il fatto che “quello che ci attende a Bruxelles sarà un confronto duro e importante, un confronto politico”, perché l’Unione bancaria che la Ue si appresta finalmente a varare non giungerà grazie alla forza dell’Italia e delle sue proposte, ma a seguito di una serie di compromessi tra Francia e Germania, che dunque (legittimamente) tuteleranno maggiormente gli interessi delle proprie banche e delle proprie aziende. Che Letta provi a puntare i piedi è cosa buona e giusta, che serva è molto dubbio, tanto più che in casa sua il premier italiano deve cercare di ricondurre all’unità le costanti divergenze d’opinione circa “l’improrogabilità” di una riforma fiscale che abolisca l’Imu sulla prima casa e congeli l’aumento di un punto percentuale dell’Iva, destinato altrimenti a scattare inesorabile dal primo luglio. Un “non evento”, visto che non ha generato neppure quel minimo di “corsa” all’anticipo dei consumi (anzi: complice la crisi gli italiani continuano a tagliare anche sulle spese per generi alimentari) che ci si poteva attendere dai precedenti storici.

Il problema del resto è molto semplice: la recessione, che la politica unicamente basata sulla repressione fiscale “germano-indotta” ha acuito, sta riducendo sia l’ammontare sia la stabilità (nel senso di garanzia di continuità nel prossimo futuro) del reddito disponibile in tasca agli italiani. Che quindi risparmiano, in qualche modo, solo per costituire un cuscinetto per far fronte a emergenze future. Il senso di precarietà è del tutto analogo a quello che si respira da mesi in Grecia, Spagna o Portogallo e per di più il favore dei mercati, che fino a maggio ha consentito ai tassi d’interesse sui titoli pubblici italiani di calare (consentendoci di pagare meno del temuto), è per il momento venuto meno, colpito dai timori di una duplice “stretta” sulla liquidità tanto negli Stati Uniti, a breve, quanto in Cina, già da un mesetto a questa parte. Il tutto mentre non è ancora chiaro se l’Abenomics riuscirà davvero a far ripartire il Giappone, compensando la minor crescita di Pechino e il raggiungimento della velocità “di crociera” dell’economia a stelle e strisce.

Se queste sono le “esogene”, cosa possono fare da parte loro commercianti, artigiani e imprenditori italiani? Smetterla di utilizzare schemi mentali superati, business model che sanno di muffa, regole buone per i decenni che furono ma non per il presente né tanto meno per il futuro. Si dovrebbe dare spazio a idee giovani, aziende giovani, addetti giovani. Non perché l’età sia di per sé sinonimo di successo (anzi), ma perché è attraverso una certa percentuale di insuccessi dovuti al porsi nuove sfide, al proporre nuove soluzioni, al tentare nuove strade che un sistema evita di atrofizzarsi, di rimanere ancorato a pochi settori maturi, come invece capitato nell’Italia delle mille lobbies incrociate, ciascuna pronta a difendere a spada tratta il “suo” modo di essere e di rapportarsi al mondo, senza alcun interesse per i vantaggi o svantaggi complessivi del sistema.

E poca differenza fa che voi siate i dipendenti-soci di Bpm che eleggono un proprio “uomo” al vertice del Consiglio di sorveglianza per meglio ostacolare il rinnovamento (in una direzione ritenuta ostile ai propri interessi) della governance di una delle maggiori banche italiane, o i manifestanti “anti F-35” (o “anti Tav” o “anti qualsiasi cosa che non mi piace”) che non tengono minimamente in conto quali benefici, in termini di occupazione e sviluppo di know-how potrebbe dare tale commessa all’industria italiana, né il fatto che il continuo taglio o blocco di ogni risorsa destinata all’istruzione, ma anche alla sanità, alla difesa, alla ricerca finisce col ridurre la qualità dei servizi per cui gli italiani continuano a pagare tasse e minaccia di aumentare la perdita di posti di lavoro.

Diamo spazio alle nuove idee, alle nuove imprese in tutti i settori, ma facciamolo concretamente, con una semplificazione amministrativa e fiscale, col rafforzamento dei meccanismi di concorrenza che favoriscano l’emergere delle migliori competenze, con incentivi mirati agli investimenti aziendali. Ed evitiamo di perdere tempo in chiacchiere se sia meglio aumentare l’Iva o cercare di non aumentarla facendo aumentare altre tasse, o se siano meglio questi o quei “cavalieri bianchi” per salvare banche, giornali e fabbriche i cui proprietari non intendono cacciare altri soldi ma non vorrebbero dover cedere neanche un grammo del proprio potere di controllo. La seconda Repubblica sta morendo: viva la terza Repubblica, ma che stavolta sia fondata sulle competenze e sulla voglia di fare, non su chiacchiere e clientele, per favore.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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