L’obiettivo è ambizioso: passare dalla deleteria logica del “tassa e spendi” che ha caratterizzato tutti i governi degli ultimi decenni, anche quelli pieni come un punta spille di presunte “sentinelle anti tasse” peraltro dai riflessi alquanto addormentati, a giudicare dall’andamento del peso delle entrate fiscali in rapporto al Pil (che secondo Eurostat sono salite dal 47,1% del 2002 al 50,6% del 2012), ad una logica “taglia e restituisci” che sfrutti un ammorbidimento sempre più evidente dell’intransigenza tedesca per rilanciare investimenti e consumi e così ridare fiato ad un Pil la cui crescita resta indispensabile per allontanare lo spettro di un default sovrano di cui scaramanticamente nessuno parla ma che resta l’unica alternativa alla morte per inedia nel caso non si allentino i laccioli del Patto di Stabilità il cui rispetto appare quanto meno dubbio come già ho fatto notare e come hanno ancor meglio argomentato Giorgio Gattei e Antonino Iero.
In questo senso è un bene che il Def 2014 sottolinei fin dalla premessa come occorra “saper sfruttare le opportunità offerte da un quadro europeo oggi più favorevole agli investimenti per la crescita e l’occupazione”, fermo restando che “fondamentale sarà la sinergia fra Governo, Parlamento e il Consiglio Europeo per utilizzare tutti gli spazi di flessibilità esistenti nel Patto di Stabilità e Crescita e per rendere possibile, mantenendo le finanze pubbliche in ordine, un rilancio degli investimenti pubblici produttivi”. Quanto è credibile la “rivoluzione” renziana? Questo è un terreno sicuramente più delicato a cui non è possibile ad oggi dare una risposta definitiva (anche se i precedenti storici non consentono facili ottimismi).
Atteniamoci alle stime del Def (pag 19 del documento ufficiale). Il totale delle entrate pubbliche è visto in calo dal 47,9% del Pil a cui dovrebbe attestarsi a fine 2014 (in crescita rispetto al 47,7% dichiarato per il 2013) al 46,9% a fine 2018. Le spese dovrebbero nelle intenzioni degli estensori del Def diminuire in modo decisamente più rapido: dal 50,6% del Pil di fine 2014 (già inferiore al 50,8% dello scorso anno) si dovrebbero attestare al 47,3% a fine 2018. Un “tre per uno” (ogni tre punti in meno di spesa pubblica si avrebbe un punto percentuale in meno di entrate in rapporto al Pil) che non fa sperare niente di buono sul fronte prettamente fiscale. E infatti scorrendo la tabella le entrate fiscali, pari al 30% del Pil lo scorso anno, non sono viste in calo ma in ulteriore aumento al 30,4% entro la fine dell’anno in corso, livello che verrà mantenuto anche l’anno venturo.
Dunque di tagli di tasse non se ne parla almeno per i prossimi 20 mesi: solo nel triennio successivo si avrebbe un impercettibile alleggerimento della pressione fiscale, in calo al 30,2% nel 2016, al 30,1% nel 2017 e al 29,9% nel 2018. Se le imposte non caleranno se non del tutto frazionalmente sembrerebbero peraltro destinate a un leggero riequilibrio dalle imposte dirette (15,3% del Pil nel 2013, visto in calo al 15% nel 2018) a quelle indirette (dal 14,5% al 14,9% del Pil nello stesso periodo). Non pare certo cattiva volontà o abitudine a “vender fumo” più che contenuti concreti (anzi). Il problema, finora abilmente rimosso dai governi che si sono succeduti alla guida del paese, sembrano essere i livelli (deleteri) a cui sono ormai giunti i conti pubblici.
Con un indebitamento pubblico pregresso di oltre 2.100 miliardi, la spesa per interessi, pari a circa 82 miliardi di euro nel 2013 (il 5,3% del Pil) non sembra poter scendere più di tanto nonostante gli sforzi della Bce che tiene tassi sull'euro sui minimi storici e si dice pronta a nuove misure non convenzionali, visto che il peso di tale voce dei conti pubblici in rapporto al Pil è atteso in calo solo al 5,2% quest’anno e poi via via fino al 4,8% nel 2018. Si noti che pur avendo decisamente ribassato le previsioni rispetto al Def 2013 (vedasi tabella a pagina 15), in particolare registrando come il Pil sia caduto nel 2013 dell’1,9% e non dell’1,3% “previsto” dal governo Letta e indicando una crescita solo dello 0,8% quest’anno e dell’1,3% l’anno prossimo (+1,3% e +1,5% secondo il Def 2013), anche Renzi confida in una progressiva ripresa dell’economia.
Grazie alle riforme che saranno introdotte e degli effetti della “spending review”, nel 2016 il Pil dovrebbe salire dell’1,6% e nel 2017 dell’1,8% contro il +1,3% e il +1,4% indicato da Letta e Saccomanni, per un incremento complessivo del 5,6% nell’arco del quinquennio 2014-2018. Il che però significa, come può verificare chiunque sia dotato, come il premier e i suoi ministri, di un foglio Excel, che a fronte di una pressione fiscale calerà destinata a calare in percentuale al Pil dal 43,8% del 2013 al 43,3% a fine 2018 (ma con un incremento quest’anno e il prossimo sino al 44%, come si evince sempre dalla tabella a pagina 19 del Def), la spesa per interessi, il cui peso su Pil è solo frazionalmente in calo, tenderà ad aumentare ancora in valore assoluto, passando dagli 82 miliardi dello scorso anno a 85 miliardi già nel 2017.
Dato che non si può sperare di attrarre investimenti o far ripartire i consumi aumentando ancora le tasse dirette o indirette che siano, il governo deve giocare neccessariamente la carta di un alleggerimento sia pure “controllato” della pressione fiscale, contrattando con la Ue un allungamento dei tempi e rinegoziando ove possibile il Fiscal Compact. Sia detto in modo esplicito: il peccato originale è consistito nell’aver adottato un’interpretazione “morale” della crisi del debito europeo da parte della Germania, pedissequamente seguita da tutti gli altri partner europei sotto la pressione del mercato ed in mancanza di una risposta politica adeguata tesa a compensare quegli squilibri intrinseci all’Eurozona di cui si diceva prima.
Avendolo commesso l’Eurozona si trova tuttora a metà del guado con l’Italia pericolosamente in bilico tra una moderata ripresa e una nuova recessione che potrebbe segnare la fine non solo dell’economia italiana per come la conosciamo oggi (a livello di singole aziende e di settori economici) ma anche di tutta Eurolandia. Rimosso l’ostacolo Berlusconi, Renzi può giocare la carta del rinnovamento delle regole per evitare il collasso del progetto europeo sotto la spinta dei movimenti populisti “no euro”. Ma dovrà fare attenzione e non sbagliare neanche un passo, a partire dalla riforma del credito, dalla semplificazione amministrativa, dalla riforma della giustizia e dall’apertura dei mercati alla concorrenza, lungo un cammino che resta accidentato e difficile per aziende e lavoratori italiani.