Si può pensare di risolvere una crisi di Governo senza nemmeno interpellare la terza componente parlamentare per numero di eletti? Si può pensare di impostare un Governo di larghe intese lasciando completamente fuori il primo / secondo partito per numero di voti, che ha raccolto oltre 8 milioni di consensi alle politiche? Si può emarginare in maniera pressoché completa un Movimento che rappresenta istanze condivise e, al netto di qualche eccesso di demagogia e populismo, propone anche risposte concrete? La risposta, per chi segue un minimo di cronache parlamentari è immediata: sì, si può ed è quello che la maggioranza delle larghe (o quasi) intese sta facendo da settimane, con una chiusura completa su più fronti.
Ad accorgersene sono stati per primi i parlamentari grillini, che da tempo lamentavano l'ottusità della maggioranza e che proprio dopo la discussione sulla fiducia al Governo Letta hanno pubblicato un amaro sfogo sul blog di Grillo, dal titolo "L'opposizione è inutile, parola di veri democratici", in cui si legge:
"Il tanto rimpianto (dai poveri elettori piddini) PCI è stato all'opposizione per tutti i quarant'anni della sua storia, eppure mai nessuno si è sognato di definirlo inutile. Invece oggi, con parole persino eversive, certi intellettuali dichiarano con la massima nonchalance che l'opposizione sarebbe "inutile".
Ma si sa, i tempi cambiano, e sempre più la democrazia si sgretola. […] La verità è che non è più concesso neanche opporsi. Si diventa "inutili" se non si appoggia un governo, un governo purchessia, un governo sempre definito "del cambiamento" anche quando è "governo del peggioramento". Ti opponi? Allora non servi a nulla. […] L'opposizione è resistenza. E stanno svuotando di significato persino questa parola, nella loro furia iconoclasta. Eversori a loro insaputa.
Ecco, il senso del post sembra sostanzialmente condivisibile. Il punto è però anche capire come si è arrivati a questa situazione, di chi sono le responsabilità e quali sono gli effetti concreti di questa situazione. Cominciando da quest'ultimo aspetto, si può dire che tale "sensazione dell'emarginazione" sta portando gli eletti grillini a premere ancora di più sull'acceleratore, con scelte evidentemente forzate, azioni tra l'eclatante ed il grottesco (quando non vere e proprie "bambinate"), interventi in Aula sempre più aggressivi, in una gara all'insulto, alla dichiarazione ad effetto, all'applauso facile. Con il rischio di mandare a farsi benedire quella che è la vera battaglia di un movimento che ha la volontà di ribaltare le scrivanie: convincere senza perdere la credibilità, attrarre senza cedere agli "istinti più bassi", non concedere nulla alla pancia dell'elettorato, incidere in maniera sostanziale.
Certo, il programma del Movimento 5 Stelle è di più ampio respiro. Certo, la prospettiva è quella di "vincere per governare". Certo, le ragioni della contestazione radicale ed "escatologica" sono connaturate alla nascita stessa del Movimento. Ma non si può in alcun modo dimenticare che la fiducia degli italiani presuppone anche la necessità di dotarsi di "mezzi" per agire qui ed ora. E di compiere quei passaggi necessari a preparare il terreno alla "svolta". Come in parte avevano cominciato a fare gli eletti a 5 Stelle dopo la prima fase di "ambientamento": con uno studio intensivo che ha prodotto un gruppetto di parlamentari preparati e attivi, nelle Commissioni e in Aula.
Poi, le incertezze della maggioranza hanno evidentemente portato ad un rilassamento. O meglio, ad uno scivolamento verso la campagna elettorale, che immaginavano fosse imminente. La risposta dei partiti tradizionali è nota: chiusura totale ed emarginazione formale e sostanziale dalla vita politica. Che si traduce anche nella vacuità di alcune rivendicazioni, nell'assoluta indifferenza nella quale passano idee e proposte probabilmente, anzi sicuramente, meritevoli di maggiore attenzione. Allo stesso tempo, spiace constatarlo, c'è anche un netto peggioramento della qualità complessiva della proposta e della riflessione 5 Stelle. È un ritorno allo "spontaneismo", pratica che se aveva un senso per la comunicazione di un organismo politico in costruzione, ne ha decisamente meno per una forza legittimata a rappresentare 8 milioni di italiani.
Che doveva / deve / dovrebbe fare quel passo avanti in grado di cambiare il copione vecchio e stanco della politica italiana. In tal senso si veda la questione della "leadership", o meglio del famoso "nome" che il Movimento avrebbe più volto dovuto mettere in campo per stanare le tante contraddizioni dei partiti della maggioranza. Un dibattito decisamente interessante che ha visto il botta e risposta amichevole fra Alessandro Di Battista e Andrea Scanzi, con il giornalista de Il Fatto a scrivere parole di senso su una questione centrale:
Non credo dunque che gli italiani cominceranno a sentirsi di colpo Che Guevara guardando i parlamentari 5 Stelle, movimento che (come scrivo e dico da almeno quattro anni) ha il suo primo limite nella intrinseca componente utopica: pretendere di cambiare gli italiani è come pretendere che l’acqua non bagni, e basta leggere due pagine di Pasolini per averne piena e definitiva contezza. […] In una fase così complicata era giusto sporcarsi un po’ e rischiare non un governo Letta o Letta Bis (orrore), ma un esecutivo “dei sogni”. Quantomeno provarci. E far dire “no” agli altri. Non avrebbe significato, come sintetizza Di Battista, “prendere in giro” gli elettori: avrebbe casomai mostrato inequivocabilmente che sono gli altri, Pd in testa, a prendere in giro i loro elettori.
Questa, si badi bene, è solo una delle ferite aperte in casa grillina. Altre rimandano alla solita vecchia questione della conciliazione dei meccanismi di partecipazione e democrazia diretta (?) con la monarchia illuminata di Grillo e con la sacra infallibilità dei suoi post. Altre ancora al rapporto tra pratica politica grillina e "rivoluzione", questione lunga, complessa, per la quale la datata analisi dei Wu Ming resta nella sostanza difficilmente contestabile:
Da noi, una grossa quota di “indignazione” è stata intercettata e organizzata da Grillo e Casaleggio – due ricchi sessantenni provenienti dalle industrie dell’entertainment e del marketing – in un franchise politico/aziendale con tanto di copyright e trademark, un “movimento” rigidamente controllato e mobilitato da un vertice, che raccatta e ripropone rivendicazioni e parole d’ordine dei movimenti sociali, ma le mescola ad apologie del capitalismo “sano” e a discorsi superficiali incentrati sull’onestà del singolo politico/amministratore, in un programma confusionista dove coesistono proposte liberiste e antiliberiste, centraliste e federaliste, libertarie e forcaiole. Un programma passepartout e “dove prendo prendo”, tipico di un movimento diversivo.
Ora che le elezioni sembrano più lontane, dunque, il problema della crescita politica e quello della modificazione della pratica parlamentare dei grillini tornano in tutta la loro rilevanza. Anche perché quello di dare dignità politica alle funzioni dell'opposizione è certamente un obbligo della maggioranza, ma anche un dovere degli stessi parlamentari 5 Stelle. Che devono necessariamente scindere il piano della propaganda da quello della rappresentanza, nel segno di una sola parola chiave: credibilità. Credibilità che si conquista anche attingendo in maniera concreta a quell'enorme serbatoio di idee, consigli, critiche della galassia movimentista. Come del resto era nei "patti" tra Grillo e i suoi elettori (e in tal senso definire deludente la piattaforma è riduttivo).
Non basta più il confronto con la deprimente situazione della vecchia politica. Non basta più "sorvegliare" e tenere il fiato sul collo ai partiti. Non basta più la denuncia qualunquista. Serve un cambio di passo, o meglio, serve ritrovare la carica "rivoluzionaria" (sempre considerando quanto sopra…) dei mesi scorsi e abbinarla ad un pragmatismo del tutto nuovo per i "cittadini – portavoce" 5 Stelle. Che tradotto vuol dire "praticare credibilità" e parlare il linguaggio della verità. E fa nulla se questa è una frase rubata a Letta.