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La morte di Sekine a Rosarno era tutt’altro che imprevedibile

La dinamica della morte di Sekine a Rosarno non è ancora chiarissima, ma c’è una certezza: è un punto di non ritorno. A Rosarno, in Calabria e nel resto del Paese è necessario cambiare il modello di accoglienza e integrazione.
A cura di Claudia Torrisi
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Nel pomeriggio di ieri si è diffusa la notizia della morte di un lavoratore migrante alla tendopoli di San Ferdinando, nei pressi di Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, ucciso da un proiettile sparato da un carabiniere. La dinamica è subito apparsa poco chiara. In un primo momento le uniche notizie che sono circolate riguardavano un immigrato che aveva aggredito un carabiniere dentro la tendopoli e questo che aveva risposto sparando. Successivamente è stata diffusa la versione delle forze dell'ordine, secondo cui Sekine Traore, maliano di 27 anni, bracciante per la raccolta della arance nella Piana di Gioia Tauro, avrebbe ferito all'occhio il carabiniere, che era "intervenuto insieme ad un collega per sedare una lite tra due extracomunitari", nata per “un tentativo di furto” o “per una sigaretta”.

"Quando i carabinieri sono intervenuti per cercare di riportare la calma, uno dei due extracomunitari ha dato in escandescenze tirando fuori un coltello e aggredendo il militare, che è rimasto ferito e poi ha sparato un colpo che ha ucciso l'uomo", riporta l'Ansa. Secondo le forze dell'ordine, tra l'altro, Sekine Traore sarebbe stato "in evidente stato di agitazione, non si sa ancora se per abuso di alcool o di altre sostanze e quando sono intervenuti i carabinieri l'uomo si è scagliato contro i militari con un coltello ferendo un carabiniere al volto vicino all'occhio destro e che è stato curato in ospedale dove gli hanno dato cinque punti di sutura", ha detto il Procuratore di Palmi, Ottavio Sferlazza, che ha precisato che "il carabiniere dovrà essere iscritto nel registro degli indagati, ma il quadro che si delinea è di una legittima difesa da parte del militare".

La versione ufficiale sull'episodio di ieri ha subito scatenato ovvie reazioni di alcune parti politiche. Il deputato di Fratelli d'Italia Ignazio La Russa si è affrettato a esprimere "vicinanza e solidarietà al carabiniere che nella tendopoli di San Ferdinando ha legittimamente usato l'arma in dotazione per difendere se stesso e assolvere al suo dovere di tutore della legalità". Lo stesso ha fatto il leader della Lega Nord Matteo Salvini, che ha mandato "un abbraccio" al militare, sperando che "non passi guai".

Le versioni dei migranti

A dispetto di queste certezze, iniziano a emergere ricostruzioni certamente più complesse di quanto accaduto ieri a San Ferdinando nella baracca adibita a bar all'interno della tendopoli. Secondo un sito locale che ha raccolto alcune testimonianze di altri braccianti, "durante la colluttazione, nella quale un carabiniere è rimasto ferito, lo stesso è successivamente uscito fuori dal bar di fortuna per chiamare rinforzi". A questo punto "un militare diverso dal carabiniere precedentemente ferito ha esploso il colpo fatale per il giovane africano". I migranti avrebbero anche raccontato che Sekine non era né ubriaco, né soffriva di problemi psichici.

Un altro bracciante intervistato parla – visibilmente scosso – di carabinieri che "raccontano bugie" e "di sette persone contro uno" e di un coltello "per panini, non per ammazzare". In effetti circa questo punto le versioni non sono chiarissime: nonostante le agenzie parlino di ferimento con un "coltello dalla lama seghettata", altri giornali parlano anche di un "grosso oggetto di ferro" che il ragazzo, prima di prendere la posata, avrebbe scagliato verso le forze dell'ordine.

Di "sette persone contro uno" parlano anche dei cartelli esposti durante una protesta dei lavoratori di stamattina. E la circostanza si ritrova anche nel racconto che un'attivista di Acad – associazione contro gli abusi in divisa ha fatto in una corrispondenza in radio dopo aver parlato con alcuni migranti presenti ieri nella baracca ristorante: "C'è stata una lite tra loro, non sono riusciti a calmarla e hanno chiamato le forze dell'ordine, com'era normale. Sono arrivati in sette e gli hanno chiesto di lasciarli soli con questo ragazzo". Mentre si trovavano fuori "hanno sentito lo sparo, hanno provato a rientrare ma non gli è stato consentito". Antonio, un altro attivista del posto conferma che i migranti concordano tutti nel fatto che quando il 27enne è morto con lui c'erano solo le forze dell'ordine.

Il fratello e un amico di Sekine hanno raccontato a un'emittente locale che il ragazzo non era una persona violenta e che, a dispetto di quanto venuto fuori sui media, non era malato né beveva "neanche una goccia di vino". Circa quanto successo ieri, i due hanno detto che il ventisettenne si trovava al bar con i suoi amici, e se era "nervoso è perché ci sono tante cose che non si capiscono". Adesso il fratello di Sekine vuole andare via da San Ferdinando "perché non c'è sicurezza".

"La situazione qui è sempre tesa per il forte disagio che si vive, c'erano state liti in passato ma sporadiche rispetto alle difficoltà. I migranti non avevano paura delle forze dell'ordine, anzi, si sentivano tutelati. Per questo non riesco a capire come in una situazione già così fragile una banale lite non si sia riuscita a contenere", spiega Giulia Anita Bari, che si occupa dei progetti in Calabria di Medu – Medici per i diritti umani. "Conoscevano le pattuglie – aggiunge – hanno chiamato loro le forze dell'ordine, era già successo. Per questo è ancora più grave". Medu ha parlato con un migrante del Ghana che gestisce la "baracca ristorante" dove si è svolto tutto. "Ha detto che il ragazzo era agitato – spiega l'operatrice – e che aveva preso un banale coltello da ristorante. In effetti c'era un carabiniere con del sangue sul volto, ma non ha capito se a causa di un coltello o di un sasso o un altro oggetto perché lui era uscito fuori. Poi ha sentito lo sparo e ha visto il ragazzo a terra".

Una morte annunciata

Questa mattina un gruppo di circa centinaia di migranti è partito dalla tendopoli in corteo diretto al Municipio di San Ferdinando, per chiedere giustizia per l'uccisione del ventisettenne maliano. "Non siamo qui per fare la guerra o per fare casini, siamo qui per lavorare e per mangiare. I carabinieri devono venire per mettere pace e non per uccidere", ha detto un connazionale di Sekine. "Quello che è accaduto ieri – ha aggiunto – non è giusto. E vogliamo che tutta l'Italia e tutta l'Europa lo sappiano". Una delegazione di migranti ha poi ottenuto di essere ricevuta in Municipio, dove hanno chiesto soluzioni immediate per la situazione esplosiva che c'è nelle campagne della Piana di Gioia Tauro. Nonostante sui media si sia parlato di momenti di "tensione", secondo Giulia Anita Bari di Medu, "quello che emergeva era più la fragilità di queste persone, il loro dolore. Come a dire: ‘Anche questo dobbiamo subire'".

Nel 2010 a Rosarno, a pochi km da San Ferdinando, c'era stata una rivolta dei migranti impiegati nelle campagne, scoppiata in seguito al ferimento con un'arma ad aria compressa, da parte di un gruppo di sconosciuti, di alcuni braccianti. La protesta era culminata con macchine distrutte, undici arresti e dieci feriti e aveva acceso i riflettori sulla condizione dei migranti lavoratori agricoli della zona. Il punto, come ha precisato a Radio3 Celeste Logiacco, segretaria della Flai Cgil della Piana di Gioia Tauro, è che "dal 2010 a oggi niente è cambiato, i migranti vivono non solo nelle tendopoli di San Ferdinando e Rosarno, ma anche in casolari abbandonati occupati dai lavoratori e in una ex fabbrica occupata da coloro che non hanno trovato posto". Persiste quindi una situazione di "invivibilità e degrado sociale".

Un rapporto pubblicato due mesi fa da Medu aveva cercato di riportare l'attenzione sulle condizioni di lavoro dei migranti della Piana di Gioia Tauro. Secondo l'analisi – che si chiama, in maniera esemplificativa, "Un'altra stagione all'inferno" –  la quasi totalità dei braccianti "ha trascorso la stagione vivendo in una struttura abbandonata, in una baracca o in una tenda sovraffollata nella zona industriale di San Ferdinando – circa duemila persone  – e dormendo, in più della metà dei casi, in un materasso a terra" in condizioni igienico-sanitarie "allarmanti". Stessa sorte per le centinaia di lavoratori che vivono nei casolari abbandonati nelle campagne dei Comuni di Rizziconi, Taurianova e Rosarno, edifici fatiscenti, privi di elettricità (nei casi più fortunati alcuni migranti dispongono di generatori a benzina), di servizi igienici e acqua".

Circa il 95% dei migranti è dotato di permesso di soggiorno, e più della metà di quello per protezione internazionale. Moltissimi vivono, si legge nel rapporto, "una condizione di estrema vulnerabilità determinata spesso dalla totale mancanza di informazioni e orientamento socio-legale nonché dall’impossibilità di leggere e scrivere". Il 52% dei pazienti regolarmente soggiornanti non ha la tessera sanitaria" e le patologie più frequentemente riscontrate sono disturbi gastro-intestinali, sindromi delle vie respiratorie, problemi alle ossa, ai muscoli, traumi, patologie della cute. Secondo Medu "i lavoratori stranieri giungono, quindi, in Italia sani e si ammalano nel nostro paese a causa delle critiche condizioni di vita e di lavoro". Un lavoro che svolgono senza contratto, o non sapendo se riceveranno la busta paga".

La maggior parte dei lavoratori è, infatti, retribuita a giornata o a cassetta (1 euro per le cassette di mandarini e 0,5 per le arance) in media 25 euro al giorno per 8 ore di lavoro ed è reclutata attraverso la “piazza” (47%) – cioè l’attesa dei datori di lavoro o dei caporali nelle piazze e nei principali snodi stradali della Piana – o ricorso diretto al caporale (17%). In tale caso, il lavoratore dovrà farsi carico del costo del trasporto che varia dai 3 ai 5 euro.

In condizioni del genere, una morte è dietro l'angolo: lo scorso 20 aprile una baracca della tendopoli di San Ferdinando è andata a fuoco per un corto circuito. I sei migranti che ci vivevano si sono salvati per miracolo- segliati dai vicini – ma nel rogo hanno perso tutto. Malgrado numerose telefonate ai vigili del fuoco, nessuno è intervenuto e i lavoratori hanno sedato le fiamme da soli. "Ho dovuto calmarli anche scherzando, perché stavano protestando per il mancato arrivo dei vigili del fuoco. Purtroppo malgrado gli impegni, sulla tendopoli non c'è stato ancora nessun intervento", ha commentato in quell'occasione il parroco don Roberto Meduri.

A tutto questo devono aggiungersi le aggressioni che negli ultimi tempi i braccianti sono costretti nuovamente a subire. Le associazioni che operano sul territorio, infatti, hanno denunciato una ripresa degli episodi di violenza. Alla fine del 2015 tre lavoratori – due del Burkina Faso e uno del Mali – sono aggrediti da sconosciuti mentre rientravano intorno alle 19 nella tendopoli di San Ferdinando. Una macchina si è avvicinata e qualcuno ha colpito i ragazzi con una spranga di ferro. A febbraio, due giovani sono stati presi a bastonate alla schiena e in faccia, sempre dalla stessa auto bianca. Nonostante i controlli, nessun responsabile è stato fermato.

Medu spera che "l'episodio di ieri serva come punto di non ritorno" perché finalmente cambi qualcosa, "in Calabria così come in altre parti del paese". Al di là delle ricostruzioni pasticciate e poco chiare, insomma, la morte di Sekine ha tutta l'aria di essere un fatto tutt'altro che imprevedibile.

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