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Opinioni

La mancia elettorale di Renzi non renderà la ripresa più equa

Il governo lascia intendere che grazie ad un “tesoretto” di 1,6 miliari frutto di una riscrittura di alcune stime contabili si potrà rendere la crescita più “equa”. E’ un miraggio, purtroppo: vi spiego perchè e quali costi potrebbe nascondere…
A cura di Luca Spoldi
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Una mancia elettorale da (stimati) 1,7 miliardi chiamata “tesoretto serve in questi giorni al governo di Matteo Renzi per far discutere tutti del dito e non della Luna che esso, più che indicare, cerca di nascondere. Il “tesoretto” non viene direttamente indicato nel Def ma è ricavabile come scostamento tra il rapporto deficit/Pil tendenziale “a legislazione vigente” (2,5% per l’anno in corso) e quello “programmatico”, su cui cioè punta il governo (2,6%). Si sta parlando appena di uno 0,1% di Pil, ma siccome il Pil italiano è stato pari a 1.616 miliardi lo scorso anno e viene stimato pari a circa 1.639 miliardi, la differenza vuol dire circa 1.620-1640 miliardi. Attenzione: non si tratta di “vera” crescita, ma solo di una variazione delle stime (che puntualmente a posteriori risulteranno errate per eccesso o per difetto) per un’entità infinitesima che tuttavia si basa su un presupposto non così scontato (che Bruxelles dia il suo benestare, che resta la condizione necessaria come già spiegato).

Non solo: pur infinitesimo a livello complessivo e dunque di nessun impatto concreto sulla crescita reale del paese, pur aleatorio in quanto dovuto a un tratto di penna, pur sottoposto all’approvazione non scontata di Bruxelles, questo maggior deficit viene “individuato” a poche settimane da una tornata elettorale. Visto che questo maggior deficit andrà speso, “presumibilmente” per misure a sostegno del Welfare, come hanno già fatto sapere Matteo Renzi e i suoi ministri, c’è da chiedersi chi sarà il destinatario di tale mancia elettorale. Una somma simile se divisa per un numero eccessivo di soggetti rischia di produrre ancora minor effetti del già inutile (almeno in termini di crescita) “bonus Irpef”, quegli 80 euro che in modo fortemente diseguale il governo ha deciso di regalare a una parte dell’elettorato italiano al costo di una decina di miliardi di euro l’anno, miliardi che, questi sì, se spesi a favore della crescita sarebbero potuti servire, ad esempio, ad azzerare l’Imu, a non far slittare di un anno il taglio dell’Irap sulle imprese o finanche a sostenere gli investimenti in conto capitale pubblici o privati che fossero.

Quindi è presumibile pensare che gli 1,6 miliardi riguarderanno una platea relativamente ristretta. Estendere magari per una cifra leggermente più bassa il “bonus Irpef” agli incapienti, ossia a coloro che hanno un reddito inferiore a 8 mila euro l’anno (sono circa 4 milioni di persone) costerebbe ad esempio 1,5-2 miliardi e quindi potrebbe essere un obiettivo plausibile e molto “spendibile” elettoralmente, anche se resterebbe da capire come garantire che l’anno venturo tale estensione venisse mantenuta (non abbiate troppi crucci: nonostante le reiterate dichiarazioni dell’esecutivo in proposito lo stesso “bonus Irpef” è per la maggior parte degli economisti del tutto ballerino e niente affatto destinato a rimanere stabilmente nei conti pubblici, visto l’ingessatura degli stessi che determina).

A favore dell’ipotesi di una qualche forma di estensione del “bonus Irpef piuttosto che di inerventi per l'edilizia scolastica (asili nido) o per un reddito minimo di cittadinanza (che anche in ipotesi minimale costerebbe circa 10 volte tanto, sui 16 miliardi di euro l'anno), si può leggere del resto l’intervista concessa a La Stampa da Pier Carlo Padoan in cui il ministro accenna a un eventuale “intervento contro la povertà” che avrebbe la stessa logica “che ci ha portato a introdurre il bonus degli ottanta euro”, dato che “l’evidenza empirica dice che dove la distribuzione della ricchezza è più equa anche la crescita è migliore”. Ora, non vorrei essere frainteso: sono certo anch’io, come penso qualsiasi altro collega analista, che una distribuzione della ricchezza meno disomogenea abbia delle caratteristiche socialmente apprezzabili e migliori la “qualità” della crescita.

Il problema resta però quello di trovare le risorse (o se volete di spostare il peso della crescita stessa dalle spalle di alcuni alle spalle di altri) e di saperle gestire efficacemente, per evitare di buttare via risorse che restano preziose in quanto scarse (e in epoca di economia globale estremamente mobili). A questo punto, tuttavia, tanto varrebbe non prendere in giro gli elettori, che certo avendo seguito per almeno un ventennio altri pifferai magici sono evidentemente assuefatti, ma non è detto amino farsi menare per il naso. Se si vuole sostenere, per di più in modo “equo” la crescita, non ha senso spendere uno 0,1% in più e poi aumentare (previsioni per cassa di pagina 80 del Def) dell’1,2% le entrate tributarie nel 2015 (che passerebbero dal 29,4% al 30,6% del Pil), di un ulteriore 0,9% nel 2016 (31,5%) e di un ultimo 0,2% nel 2017 (31,7%), nel mentre si riducono le spese per acquisti di beni e servizi (e più moderatamente quelle per il personale) e si tengono sostanzialmente stabili i trasferimenti da e per famiglie e imprese.

Come dite? Che dobbiamo, per impegni presi con l’Europa, ridurre il disavanzo del settore pubblico e quindi nonostante i proclami elettorali le imposte difficilmente potranno scendere senza una forte ripresa? Giustissimo, infatti il saldo, previsto negativo e pari al 4,3% del Pil (sempre in termini di cassa) a fine anno, dovrebbe azzerarsi nel 2018 e diventare lievemente positivo (0,1% di Pil) nel 2018, quando anche per cassa lo stato riceverà più di quanto darà ai cittadini e alle imprese italiane (tanto più al netto delle partite finanziarie, ossia con un “saldo primario” del bilancio pubblico che passerà dallo 0,3% dello scorso anno allo 0,7% quest’anno, per poi arrivare al 3,9% nel 2017 e al 3,8% nel 2018).Tutto questo è in larga misura inevitabile, con un debito/Pil accumulatosi e visto ancora in crescita dallo stesso esecutivo.

E’ il macigno del debito fatto in passato, anche con un costo del rifinanziamento visto (pag 37 del Def) in calo dal “4,7% rilevato nel 2014” al  “4,2% nei primi due anni di previsione” (2015 e 2016), per poi “ridursi  ulteriormente  nel  periodo  successivo, fino a raggiungere il 3,7% del Pil nel 2019”, che condanna l’Italia a una politica di contrazione e/o crescita inferiore al potenziale, almeno quanto il suo quadro demografico e la sua contrazione del credito legata alla crisi della domanda interna, in quanto una parte della crescita continuerà ad essere drenata dalle imposte necessarie a ridurre il peso del deficit stesso, almeno in raffronto al Pil nominale come chiedono le regole europee (e almeno in parte il buono senso).

Cercare di “farsi animo” con una mancetta elettorale da 1,6 miliardi significa mettere un’elemosina nella tasca di pochi, appesantendo ulteriormente il peso sulle spalle di molti. Non mi parrebbe la migliore strategia per superare una lunga fase di stagnazione che rischia di seguire alla recessione degli ultimi quattro anni, neppure nell’ipotesi, remota, che in Europa la Germania cessasse di insistere come ha finora fatto su una “cura letale” fatta solo di austerità per adottare un approccio più pragmatico che mettesse la crescita al primo posto nella scala di priorità e la ristrutturazione dei conti pubblici a seguire.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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