La mafia, lo Stato, la trattativa
Alcuni snodi fondamentali della storia del nostro paese ricordano i romanzi polizieschi dell’americano James Ellroy, in cui la corruzione è talmente dilagante da costituire l’unica realtà possibile, anziché l’alternativa all’onestà e alla rettitudine; quando tornano alla mente alcune ferite mai rimarginate della nostra nazione, non si può non pensare a come, tante volte, le parti dei “buoni” e dei “cattivi” si siano confuse, creando quelle zone d’ombra e grigio inquietanti che costituiscono la nostra peculiarità e di cui portiamo sempre i segni con noi.
Uno dei tanti momenti delicati degli ultimi decenni è stato quello in cui la mafia sembrò, ancor di più come aveva fatto tante volte in passato, voler sferrare un attacco forte, plateale, inequivocabile a quelle forze dello Stato impegnate a lottare contro di essa; Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con le rispettive scorte, persone che fieramente avevano portato avanti la loro battaglia per la legalità caddero sotto i colpi di quella guerra, i cui protagonisti non avevano certamente l’appeal dei personaggi da romanzo ma semplicemente tutta “la banalità del male” possibile con sé.
Uno di questi è Giovanni Brusca il cui soprannome, u’ scanna cristiani, rende perfettamente giustizia alla sua implacabile attività criminale; un’attività durante la quale ha commesso un numero di omicidi superiore ai 150 ma che non è in grado di determinare perfettamente, tra cui quello dei giudici Giovanni Falcone e Rocco Chinnici, e di Giuseppe di Matteo, rapito all’età di 13 anni ed ucciso dopo due.
Giovanni Brusca ha raccontato molto di sé e della sua organizzazione criminale anche oggi, al processo in corso a Palermo all’ex generale dei carabinieri Mario Mori accusato di favoreggiamento alla mafia nell’ambito della mancata cattura, nel 1995, del boss Bernardo Provenzano: secondo alcuni pentiti, infatti, l’ex generale sarebbe stato il contatto per la trattativa che portò la mafia a cessare la strategia stragista, in cambio di alcune richieste personali a cui solo lo Stato poteva rispondere.
Brusca è stato ascoltato in videoconferenza in qualità di teste, dopo aver già parlato al medesimo processo il 18 maggio scorso; questa volta ci ha tenuto a scandire la sequenza di eventi compresi tra le due tragiche date della strage di Capaci, 23 maggio 1992, e della strage di Via D’Amelio, 19 luglio, dopo aver fatto mente locale sugli accadimenti di quei mesi, come ha sostenuto quest’oggi.
Fu Totò Riina a parlare a Brusca della "trattativa" con lo Stato, tra la fine di giugno e l'inizio di luglio del 1992, nel corso di un summit tenutosi a casa del boss Girolamo Guddo. Secondo il capo dei corleonesi, lo Stato, spaventato, si sarebbe mostrato disposto a trattare e ad accettare le sue condizioni, presentate nel celebre papello che riportava per iscritto le richieste della mafia. In seguito i due si videro un'altra occasione in cui non si parlò più dell'argomento; quindi, il 16 luglio, il boss Salvatore Biondino avrebbe fatto cenno ad un lavoro da compiere: si trattava dell'omicidio di Paolo Borsellino. L'importanza di queste rivelazioni, in cui però, va sottolineato, sono state comunque riscontrate alcune incongruenze anche da parte dei giudici, sta nel fatto che la trattativa viene appunto fatta risalire ad un momento precedente alle strage di Via D'Amelio, rendendo quindi probabile l'ipotesi che Borsellino fu eliminato perché d'ostacolo alla trattativa tra i vertici delle istituzioni e i capi della mafia.
Nel corso delle due ore e mezzo di interrogatorio, Brusca ha anche parlato di Gaspare Spatuzza, collaboratore di giustizia sulla cui attendibilità, tuttavia, sono sempre state espresse parecchie riserve. Nello specifico, Spatuzza ha parlato dell'attentato che avrebbe dovuto aver luogo fuori all'Olimpico: una Lancia Thema carica di esplosivo e di bulloni e pezzi di ferro che ne dovevano aumentare la potenza e pericolosità, venne posta fuori allo Stadio. Lo scopo era quello di vendicarsi dei carabinieri che, secondo quanto riferito da Brusca, li avevano «presi in giro»: Spatuzza ne avrebbe riferito al boss dopo il gennaio 1994, quando l'autobomba sarebbe dovuta esplodere. Un difetto al telecomando non innescò la deflagrazione, impedendo così all'ennesima pagina di sangue, dolore e impunità di entrare forzatamente nella nostra storia.