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Opinioni

Che lezione dal nuovo default dell’Argentina?

Il default argentino è scattato. O forse è ancora evitabile. O comunque non produrrà danno alcuno. O forse sarà l’inizio della fine. Proviamo a distinguere i fatti dalle opinioni e capire come potrà andare a finire e quali saranno le conseguenze…
A cura di Luca Spoldi
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Il secondo default dell’Argentina in tredici anni, ampiamente prevedibile vista la rigidità delle posizioni assunte dalle due parti (i negoziatori di Buenos Aires da un lato, i rappresentanti dei bondholder che non accettarono la ristrutturazione del debito pubblico argentino nel 2005 e nel 2010 dall’altro, tra i quali vi sarebbero circa 55 mila risparmiatori italiani), è diventato realtà allo scoccare della mezzanotte odierna ora di New York (quando in Italia erano le sei del mettino). E’ meglio partire da questo fatto e cercare di attenersi ad altri fatti certi se si vuole capire il ginepraio in cui la vicenda si è “incartata” e i danni che può produrre per l’Argentina e per il mondo intero (Italia compresa). Un secondo fatto è che esistono varie tipologie di titoli pubblici, denominati in varie valute, emessi in base alle leggi di più stati, con al loro interno differenti clausole contrattuali. Quindi parlare di default per i titoli “scambiati” denominati in dollari e collocati in base alle leggi americane (per i quali il giudice americano Thomas Poole Grisa, come già spiegato, ha bloccato il pagamento degli interessi vincolandolo al rimborso integrale dei titoli “in default” e non scambiati nel 2005 né nel 2010) non equivale a parlare tout court di default sovrano, almeno per ora.

Il rischio è però concreto perché oltre agli 1,33 milairdi di bond tutelati dall'ordinanza del giudica Griesa, che teoricamente potrebbero chiedere l'immediato e integrale rimborso di capitali e interessi (per complessivi 1,5 miliardi), dei bond in circolazione (ottenuti in cambio di quelli caduti in default nel 2001 che riguardò un ammontare complessivo di titoli per 95 miliardi di dollari) ve ne sono alcuni, per un ammontare di circa 29 miliardi di dollari, che hanno al loro interno una clausola, detta di “cross-default” che a tutela dei sottoscrittori prevede che in caso di un qualsiasi default su altri debiti emessi dallo stesso debitore, i bondholder possano chiedere il rimborso immediato anche dei loro titoli. Qui i fatti finiscono e iniziano le interpretazioni: Standard & Poor’s ha infatti dichiarato l’Argentina in default riducendone il rating sovrano a “selective default” da “CCC-” (a cui l’aveva ridotto il 17 giugno scorso) spiegando che il rischio di default è cresciuto, visto che 29 miliardi di dollari equivalgono all’intero ammontare delle riserve in valuta estera di Buenos Aires.

Goldman Sachs, al contrario, ritiene che questa volta il default potrebbe durare molto poco e che non vi sia un reale rischio di solvibilità. Il che è un’opinione che pare almeno in parte condivisa dal mercato visto che ieri i titoli di stato argentini hanno visto le proprie quotazioni salire e anche stamane non sono crollati, anche se in parallelo i Cds, credit default swap, ossia il costo da pagare per assicurarsi la protezione dal rischio di insolvenza del debitore, sono volati alle stelle e adesso per coprirsi dai rischi su 10 milioni di dollari di bond occorre pagare 3,1 milioni di dollari di premio, mezzo milione più dell’altro ieri. Si noti tuttavia che i Cds coprono a malapena un miliardo di dollari di bond argentini, contro circa 10 miliardi di dollari di bond russi e 16 miliardi di bond brasiliani e che più in generale stiamo parlando di titoli (e derivati) che riguardano una frazione della posta in gioco, i cui prezzi potrebbero dunque non essere del tutto significativi.

Perché Goldman Sachs (e come lei anche numerosi gestori intervistati in queste ore dalla stampa finanziaria mondiale) mostra un cauto ottimismo? Perché la clausola “pari passu” (o  “rufo clause”) che prevede parità di trattamento per tutti gli obbligazionisti e quindi impedisce, di fatto, ogni “rilancio” da parte di Buenos Aires, scadrà il 31 dicembre di quest’anno. Dal primo gennaio del 2015, dunque, l’Argentina potrebbe rimborsare integralmente i bond per cui è stata chiamata in causa.Questo potrebbe consentire che la tutela degli interessi di alcuni (i bondholder che hanno portato in causa, vincendo, l'Argentina) si ripercuota in un danno per molti (coloro che accettarono la ristrutturazione, tra cui 400 mila risparmiatori italiani).

In ogni caso, poi, perché sia dichiarato default su tutti i 29 miliardi di dollari di titoli con clausola “cross default” occorre che la richiesta provenga da almeno il 25% dei bondholder e non è certo succeda (anche se è possibile). Inoltre Buenos Aires, che da parte sua continua a dire che non è “tecnicamente” in default avendo provveduto a fornire i capitali per pagare gli interessi sui bond “scambiati” (539 milioni di dollari), il cui pagamento è stato bloccato solo dall’ordine del giudice Griesa che richiedendo il parallelo rimborso di 1,33 miliardi di dollari avrebbe finito col far scattare la clausola “pari passu” rischiando di far pagare fino a 120 miliardi di dollari agli obbligazionisti che avevano già accettato la ristrutturazione del 2005/2010, ha già fatto qualche passo in avanti per soddisfare i suoi creditori internazionali, in particolare con l'impegno a rimborsare 9,7 miliardi di debiti al “Club di Parigi” entro cinque anni.

In tutto questo come sta l’economia “reale” argentina? Non molto bene, anche se sono passati 13 anni dal disastro che alcuni investitori considerano la semplice “constatazione che un debito no né ripagabile nè sostenibile e quindi bisogna sedersi a un tavolo e rinegoziare tutto: interessi, rimborso, scadenze”, il che è vero a patto che entrambe le parti si rendano conto “che debitore e creditore hanno interessi comuni e destini collegati”, cosa che non sempre è pacifica, ed anche se il Pil argentino è cresciuto dai 268,7 miliardi del 2001 ai 475,2 dello scorso anno (cosa che ha consentito a Buenos Aires di risultare il 26esimo paese al mondo per Pil), peraltro dopo essere crollato, nel 2002, a soli 102 miliardi. L’inflazione, a seguito di un forte ampliamento di base monetaria (in sostanza l'Argentina ha iniziato a stampare moneta a più non posso) è infatti schizzata sopra il 25%  da quando a inizio anno il governo ha accettato di usare la metodologia del Fmi, smettendola di truccare platealmente i dati come fatto fino a quel momento dichiarando di avere un’inflazione sotto il 10% annuo, mentre il Pil pro capite resta a livelli  molto modesti:  le stime (stime, non dati certi) dell’Fmi in dollari correnti parlano per il 2013 di circa 12 mila dollari, 500 in più dello scorso anno, valore che dovrebbe crescere di altri 200 dollari circa entro fine anno se non ci saranno ulteriori contrattempi.

Per essere chiari: sempre secondo tali stime l’Italia ha visto calare il Pil pro capite a poco più di 34 mila euro l’anno scorso (dai 36.227 euro del 2011, già scesi a 33.115 nel 2010) e dovrebbe andare a sfiorare i 34.300 euro entro fine anno; il Giappone, sempre in crisi, è calato dai 46.100 dollari pro capite del 2011 ai 40.400 dello scorso anno ma dovrebbe rimbalzare a 41.500 dollari entro fine anno; la Germania “locomotiva d’Europa” era a 44.110 dollari nel 2011, dovrebbe aver chiuso  il 2013 a 44.010 dollari ed è vista risalire a 44.870 dollari alla fine di quest’anno; la Gran Bretagna, nonostante i sostegni della Bank of England e la sterlina, è passata da 38.758 a 38.000 dollari e quest’anno dovrebbe salire a 38.957 dollari o giù di lì; “sua maestà” gli Stati Uniti, il cui Pil è appena stato calcolato in crescita del 4% annualizzata nel secondo trimestre dell’anno, vedevano un Pil pro capite di oltre 48.300 dollari nel 2011 e dovrebbero aver sfiorato quota 51.250 dollari a testa lo scorso anno (per quest’anno si preveda salgano a quasi 53.330 dollari pro capite). Decisamente non sono i default che risolvono i problemi, semmai sono la prova provata che i problemi esistono ed occorre trovare un’intesa per risolverli o sarà peggio per tutti. Peccato che non esisti una cura (tanto meno indolore) per tutti, come si vorrebbe far credere.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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