AGGIORNAMENTO: Come prevedibile, la fase di discussione preliminare in Commissione ha aperto lo scontro sulla “questione” della democrazia interna ai partiti. Il M5S ha presentato un emendamento per espungere dalla legge in discussione “l’obbligo di democrazia interna”: la proposta è stata bocciata a larga maggioranza. La posizione dei grillini è stata sintetizzata da Danilo Toninelli che, in sede di discussione, ha ribadito di ritenere sufficiente l’indicazione data dall’articolo 18 della Costituzione e di considerare come una violazione dell’articolo 49 le norme contenute all’interno della proposta Richetti.
In Commissione sono stati poi approvati due emendamenti di grande rilevanza. Il primo, votato anche dai grillini, riguarda la possibilità di espellere un soggetto dal partito o dal movimento politico: in assenza di regole diverse sancite nello statuto o in accordi di altro tipo interni al partito, si farà riferimento al codice civile. Tecnicamente, dunque, una eventuale espulsione di Pizzicotti sarebbe molto probabilmente illegittima, dal momento che non c’è un appiglio regolamentare nel Non – Statuto del M5S.
Il secondo prevede che il simbolo del partito sia di proprietà del partito stesso e che a decidere su eventuali altre “destinazioni” sia sempre l’assemblea degli iscritti. Anche in questo caso, tale norma varrà in assenza di regole specifiche adottate dai singoli partiti.
È in discussione in Commissione Affari Costituzionali la proposta di legge “Disciplina dei partiti politici, in attuazione dell'articolo 49 della Costituzione, e delega al Governo per l'emanazione di un testo unico per il riordino delle disposizioni riguardanti i partiti politici”, presentata da Paolo Fontanelli del PD e “affidata” a Mazzetti di Celso (Scelta Civica) e Richetti (PD). La proposta, che intende “attuare” l’articolo 49 della Costituzione, ha subito modifiche sostanziali rispetto alla sua prima formulazione, tanto che appare ormai del tutto fuori luogo parlare di “legge anti – Movimento 5 Stelle”.
La norma attualmente al vaglio della Camera, infatti, delega il Governo a redigere una legge che, tra le altre cose, permetta di escludere dalle competizioni elettorali quei partiti che non abbiano uno Statuto o, in alternativa, una “dichiarazione di trasparenza”, redatta davanti a un notaio in cui siano chiari “il legale rappresentante del partito, la sede legale, gli organi e la loro composizione e attribuzioni, le modalità di selezione dei candidati”. Nulla che i grillini non abbiano già fatto, insomma.
Nel testo, poi, si prevedono regole per la trasparenza, sia sulle donazioni (anche per cifre sotto i 5mila euro) che sulle iscrizioni (dovrà esserci un’anagrafe degli iscritti consultabile da ogni tesserato al partito), ma sempre per quei gruppi “iscritti al registro partiti” e non per tutte le forze politiche (anche in questo caso, nulla cambierebbe per il Movimento). Più pesante l'assenza una ristrutturazione del sistema delle fondazioni, cui anche i grillini si sono affidati ultimamente, che rappresentano il vero "buco nero" in tema di trasparenza, in particolare per quel che concerne i finanziamenti.
Messa in questo modo, e considerando la situazione attuale, però la legge aggiunge poco o nulla, anche considerando che la quasi totalità dei partiti ha già adottato codici di autoregolamentazione e meccanismi per garantire la trasparenza dei bilanci. Se poi aggiungiamo la mancanza di coraggio nell'affrontare la questione delle fondazioni, vero buco nero della politica italiana, dei loro rapporti con gli stessi partiti e della loro centralità nel sistema di finanziamento e gestione del potere su base territoriale, allora abbiamo un provvedimento "lastricato di buone intenzioni", ma nella sostanza vuoto e ancora troppo vago.
Il punto, poi, è rispondere alla domanda base: serve una legge sui partiti politici in Italia?
Una premessa necessaria: chi scrive è convinto che una legge sui partiti sia completamente inutile e che, fatte salve le norme per la trasparenza di finanziamenti e flussi monetari, non sia mai una buona idea quella di regolare la “vita interna” di organismi politici che svolgono una precisa funzione costituzionale. Non a caso, i padri costituenti evitarono di intervenire nella struttura e nei meccanismi di funzionamento dei partiti, evitando la possibilità di condizionamenti dall’esterno e di ingerenze da parte delle istituzioni.
Secondo i relatori, alla base della proposta c'è non solo la necessità di recepire anche una normativa europea (un atto del Parlamento Europeo che istituisce una autorità indipendente), ma anche quella di una formalizzazione più chiara dell'istituto del partito politico.
L'idea di una legge sui partiti è però molto datata e nasce dalla volontà di dare attuazione al "combinato disposto tra gli artt. 1, 2, 18 della Costituzione, che vede nell’art. 49 sui partiti politici il punto finale di un percorso nel quale il partito costituisce il luogo naturale per i cittadini, associati liberamente, di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Ma, come nota Giuliano Amato in un lungo report per la Camera, la "laconicità dei parametri costituzionali ai fini di una regolamentazione dei partiti politici ha lasciato il nostro Paese in una “felice” (o infelice) ambiguità".
Una scelta non priva di senso, che sembra però avere un doppio risvolto:
Da un lato, infatti, i partiti hanno potuto interpretare in modo libero e fino in fondo le esigenze della neo-nata democrazia italiana, permettendo alla nostra società di espandersi attraverso di essi in modo armonico e aperto, dando modo cioè a tutti i cittadini e ad ogni istanza sociale di potersi creare o trovare il proprio spazio politico attraverso la possibilità di costituirsi in partito.
Dall’altro questa intrinseca flessibilità, nel tempo, ha contribuito a favorire una reale occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici che ne hanno abusato per lo più senza particolari remore, trasformando diritti in favori e regalie, facendo degenerare la stessa concezione, oltre che funzione, del partito nel nostro ordinamento.
Il problema essenziale è per molti la democraticità interna ai partiti, che in questa ottica comporta "effetti distorsivi nella concezione dei rapporti tra individuo e autorità, tanto nei rapporti esterni tra partiti e ordinamento, quanto nei rapporti interni tra partiti e loro associati". Ma come può una legge intervenire nella struttura interna e nei meccanismi base dei partiti senza condizionarne scelte, ideologie, programmi? E ancora, si può garantire per legge la democraticità interna dei partiti? E se sì, su quali parametri?
Sempre Giuliano Amato si mostrava piuttosto scettico su tale possibilità, limitando il campo di attuazione di una legge sui partiti (che pure considerava necessaria): "
Di sicuro ha senso che una legge definisca la missione dei partiti sulla base dell’art. 49 e la articoli poi in modo conseguente. Essa dovrebbe dire perciò che i partiti politici sono libere associazioni di cittadini che hanno il fine di promuovere e favorire il concorso degli stessi cittadini alla determinazione della politica nazionale.
Ha anche senso che lo Stato punisca, ovvero neghi i suoi contributi finanziari, ai partiti che non assolvono adeguatamente a queste loro basilari missioni? Può essere forte la tentazione di stabilirlo, ma sarebbe in realtà contrario allo stesso art. 49, giacché devono essere i cittadini a premiare o a punire.
[…] Per le stesse ragioni dette poc’anzi, non si può pretendere dai partiti che assicurino l’iscrizione a chiunque. L’iscrizione deve essere garantita, e devono esserci rimedi in caso di diniego, ma sempre sulla base dei requisiti statutariamente richiesti. Ciò che la legge deve caso mai fare– perché qui di una chiara regolazione c’è bisogno- è disciplinare i limiti alla iscrizione ai partiti per le categorie per le quali è la stessa Costituzione a prevederli (magistrati, militari, appartenenti alle forze di polizia e diplomatici).
La legge in discussione prova a farlo sancendo alcune caratteristiche degli statuti dei partiti, che devono indicare, tra le altre cose: la composizione e le attribuzioni degli organi deliberativi, esecutivi e di controllo; le modalità per l'ammissione, le dimissioni e l'esclusione dei suoi membri; la cadenza delle assemblee congressuali nazionali o generali; i diritti e i doveri degli iscritti e i relativi organi di garanzia; le garanzie per rendere effettivo il pluralismo interno; le modalità di selezione delle candidature.
Le obiezioni, però, sono sostanziali ed emerse anche in fase di discussione: chi controlla l’eventuale ottemperanza di tali regole? Non sono già gli organi di garanzia interni ai partiti a farlo? Non si rischia interferenza di altri “poteri”? Ci saranno nella legge delega le specifiche a definire cosa è o meno da considerarsi democratico? Si può imporre, cioè, un modello di democraticità "ex-ante", valevole per tutti i partiti politici e condiviso dai cittadini?