Ivan Scalfarotto è in sciopero della fame. Ha deciso di cominciarlo per “aprire un dibattito nel Paese che sottragga questo tema (quello dei diritti civili) all’idea che si tratti della battaglia di una minoranza e lo restituisca alla dignità di una questione nazionale, che investe il modo di essere e la natura stessa della nostra democrazia”. E, non in secondo piano, per mobilitare “le tante persone di buona volontà che fino a oggi hanno magari pensato che bastasse aspettare, che le cose sarebbero andate per il meglio da sole”. È una decisione da rispettare, un modo per rompere uno stallo assurdo, inconcepibile per un Paese che pretende di definirsi civile.
Ma è anche una scelta singolare, che apre riflessioni sulle responsabilità della politica e dei cittadini. Sulla “necessità della mobilitazione”, ad esempio, vale la pena di leggere quanto scritto, in maniera (imho) perfetta, da Luca Sofri sul Post:
La “manifestazione visibile della propria volontà di vedere il paese progredire” è in ogni caso un mezzo, non un fine. Non ha ragione di essere di per sé, se non individua una propria utilità rispetto all’obiettivo […] Molti di noi credono che – grazie ad altre forme di comunicazione, azioni, progresso, evoluzione civile – le cose stiano andando nella direzione che crediamo giusta, e che le manifestazioni “per la famiglia” siano colpi di coda (un tempo nessuno le avrebbe immaginate, non c’era bisogno), a cui lasciare i loro sempre più esigui e legittimi spazi senza cercare contrapposizioni e riattizzamenti.
C’è poi un altro aspetto: non stiamo parlando di un “uomo” della società civile, di un parlamentare di opposizione, di un attivista, di un “semplice” cittadino, insomma. Scalfarotto è un parlamentare della maggioranza, oltre che un esponente del Governo. Ed è da sempre vicinissimo al Presidente del Consiglio Matteo Renzi. E magari ha ragione anche Luca Bottura:
Invece di – o oltre a, veda lui – rinunciare ad alimentarsi, basterebbe che prendesse la parola durante il Consiglio dei Ministri e dicesse: “Raga, ma ‘sta roba incivile quando la mettiamo a posto?”. In alternativa – o inoltre, veda lui – potrebbe prendere la parola in parlamento e cercare una maggioranza sui matrimoni (questo devono essere: matrimoni) per dimostrare che in Italia non solo la legge, ma nemmeno le parole, possono essere rivendicate da una sola religione.
Ma c’è di più, a mio avviso. In queste ore in molti stanno paragonando la battaglia di Scalfarotto a quella intrapresa tempo fa da Roberto Giachetti, che si è sottoposto ad un lungo e debilitante sciopero della fame per richiamare l’attenzione sulla questione della legge elettorale. Anche Giachetti ricopriva (e ricopre) un ruolo istituzionale (vicepresidente della Camera), era (è) renziano e parlamentare di maggioranza. E anche Giachetti chiedeva ai propri colleghi di svegliarsi e colmare una assurda lacuna, di mettere fine ad un vuoto normativo e ad uno stallo insopportabile (quello politico – istituzionale). Come ha risposto il Parlamento (o meglio, come non ha risposto per mesi) è “un fatto”.
Qui però siamo anche oltre, con una complessità ulteriore, che riguarda direttamente il Governo ed il Presidente del Consiglio.
Come saprete, il disegno di legge sulle unioni civili è fermo al Senato della Repubblica da settimane: la relatrice Monica Cirinnà ai nostri microfoni si è detta certa che la questione possa sbloccarsi prima della pausa estiva, con un primo voto dell’Aula. Considerando il calendario ed il comportamento ostruzionistico della componente centrista (che ha presentato migliaia di emendamenti), però, c’è ben poco da essere ottimisti. E allora, come se ne esce? Con una protesta simbolica? Difficile, ad essere realisti.
Serve una decisione politica, una svolta decisa, una scelta. È necessario cioè che a farsi carico della questione sia in prima persona il Presidente del Consiglio, che pure si è speso molto sulla questione e ha sempre manifestato “fiducia” nella possibilità che l’Italia abbandoni il club delle “zero tutele, zero diritti” per le coppie gay. Ora deve metterci la faccia fino in fondo, senza lasciarsi "intimidire" dalle contromanifestazioni o dalle minacce dei suoi alleati di Governo.
E perché non farlo ponendo la questione di fiducia sul provvedimento, ci chiediamo. Si dirà che sulle questioni “etiche” non si può. Si dirà che utilizzare la fiducia senza particolari motivazioni di urgenza e necessità è inopportuno. Si dirà che si tratta di un tema sensibile e sul quale bisogna evitare forzature.
Ma la prassi del Governo finora è stata decisamente diversa. Renzi ha chiesto ed ottenuto la fiducia 41 volte, approvando in tal modo quasi la metà dei provvedimenti complessivi (dati Openpolis). E su argomenti diversi: dalla riforma della scuola al decreto terrorismo, passando per lo Sblocca Italia, il Jobs Act, il decreto Stadi, il Dl Cultura, fino alla legge elettorale, la riforma delle province e quella della PA. Lo ha fatto sia perché qualificava tali atti “come fondamentali della propria azione politica”, sia per aggirare le pratiche ostruzionistiche dell’opposizione. Ecco, il ddl Cirinnà risponde a questi requisiti. Possibile che solo in questo caso valgano i richiami “a contenere l’abuso dell’utilizzo” della questione di fiducia?
Di più, il Governo è intervenuto direttamente anche per rimediare al lassismo del Parlamento, per accelerare il processo legislativo (certo, tra mille critiche…comprese le nostre) e per "sedare" le divisioni interne alla maggioranza. Che non possa farlo per ampliare i diritti civili è cosa davvero paradossale.