La musica non cambia (o forse sì?). Il vertice “informale” dei capi di governo di ieri sera a Bruxelles non ha cambiato una virgola della situazione di incertezza in cui da ormai due anni versano i mercati europei a causa della crisi del debito sovrano greco e del “rischio contagio” (che riguarda in particolare Portogallo, Spagna e Italia, ma più in generale tutta Europa, con possibili ripercussioni anche a livello mondiale) di un eventuale default e uscita della Grecia dall’euro. Lo hanno spiegato bene gli analisti di OpenEurope che stamane così sintetizzavano gli esiti del vertice: “i leader europei ancora una volta hanno omesso di fornire proposte concrete per affrontare la crisi della zona euro”. Del resto l’unica novità rispetto ai precedenti vertici è l’ormai conclamata divergenza di opinioni in merito alla ricetta per la crisi tra la Germania e la Francia, una divergenza che rischia di pesare ancora a lungo tanto che il presidente del Consiglio Europeo, Herman Van Rompuy, ha messo le mani avanti spiegando che tali discussioni che su cui si incentrerà il prossimo vertice del 27-28 giugno prossimo rispetto ai piani per andare verso un sistema europeo di garanzia dei depositi bancari e per la nascita degli eurobond (la cui elaborazione ieri sarebbe stata formalmente assegnata alla Commissione Ue) saranno solo “preliminari”. Che i tempi siano ancora lunghi nonostante la crisi stia divorando la Grecia e mettendo sempre più a rischio l’intera Europa (sono di oggi nuovi dati negativi sia per quanto riguarda il settore manifatturiero di tutta l’Unione europea, sia per quel che riguarda il clima di fiducia nell’economia in Germania), richiedendo dunque una soluzione sistemica e non il tentativo di proporre 27 diverse “soluzioni” pensate ciascuna per tutelare solo i propri interessi nazionali, è evidente, visto che come ha ricordato sempre ieri Mario Draghi ai capi di governo della Ue, parlare di Eurobond sotto qualsiasi forma (anche i “project bond” con cui si vorrebbero far finanziare nuove opere infrastrutturali comunitarie) è inutile e prematuro finché non ci sarà un’unione fiscale che di fatto richiede un’unione politica ancora di là da venire. Così lo stesso Draghi, secondo Jp Morgan, si starebbe preparando all’eventualità peggiore (che tutti a parola vogliono escludere ma sembrano pensare ormai molto probabile, al punto di dover studiare piani per affrontare l’emergenza “a livello nazionale”) approntando una terza Ltro con cui inondare di liquidità i mercati e preparandosi a tagliare i tassi sull’euro di un altro quarto di punto (o forse anche mezzo punto) tra luglio e settembre, quando sarà chiaro che cosa la Grecia deciderà di fare (e come reagiranno i partner europei alla decisione).
Super Mario in azione. E’ ancora Draghi che nel corso della commemorazione odierna di Federico Caffè alla Sapienza torna sull’argomento e parte all’attacco: accanto al “ben noto fiscal compact” occorre un “growth compact” , spiega, perché “la crisi ci ha mostrato i limiti di un’unione solo monetaria” ed ora è necessario “che i governi dei Paesi dell’eurozona definiscano congiuntamente quale sarà la costruzione politica ed economica che sorregge la moneta unica”. Draghi biasima anche i pochi investimenti che i governi fanno sui giovani, “colpiti dalla crisi in modo particolare”: è “uno spreco che non possiamo permetterci” nota il banchiere (che forse ha avrà letto qualche considerazione al riguardo espressa dal sottoscritto su queste pagine). Tutto vero, come è vero che la “iniqua distribuzione del peso della flessibilità solo sui giovani” ha creato “una eterna flessibilità senza speranza di stabilizzazione” e “porta tra l’altro le imprese a non investire nei giovani, il cui capitale umano spesso si deteriora in impieghi di scarso valore aggiunto”. Verrebbe però da chiedersi dov’era l’ex Governatore di Banca d’Italia in questi ultimi 20 anni in cui in Italia non solo è crescita la precarizzazione del mondo del lavoro e il sottoutilizzo dei nostri giovani (costringendo i migliori talenti a emigrare all’estero ad un ritmo che alcuni stimano tra i 35 e i 45 mila ricercatori, dottorandi e laureati all’anno, mentre in Italia alcune “anime belle” continuano a sostenere che più che una scarsa attenzione all’innovazione il problema dell’Italia risieda nella cattiva volontà dei giovani di fare “mestieri utili e appaganti come il panettiere o l’artigiano”, mica provare a dar vita a una società come Facebook, no), ma non è mutato di un millimetro un quadro fatto di drammatiche “emergenze” che durano ormai da decenni se non da secoli, come la macroscopica divergenza in termini di sviluppo economico tra Nord e Sud, l’esistenza di vaste organizzazioni criminali in grado di intercettare flussi di miliardi di euro l’anno, l’esistenza di un “nero” che raggiunge secondo alcune stime i 150-180 miliardi di euro l’anno, ossia tra un quarto e un terzo rispetto al Pil “ufficiale”, ovvero tra le 5 e le 10 volte l’ammontare delle “misure correttive” tradottesi anno dopo anno in un costante incremento del peso fiscale per i contribuenti onesti.
Colmare i gap senza retorica. Soprattutto è rimasto immutato in Italia in questi decenni un gap culturale imbarazzante rispetto agli altri paesi europei per non dire rispetto a Stati Uniti o Giappone, paesi in cui la cultura “del fare” prevale su quella meramente “teorica-speculativa”, a differenza che nel Belpaese. Un gap culturale che genera poi un gap finanziario, a causa di una mentalità che ancora investe e tutela la rendita (c'è un perché se in Italia la casa è il bene più prezioso, se l’Imu fa scatenare rivolte, se la cementificazione del territorio cresce a ritmi tripli che in Europa, se gli immobiliaristi sono i soli che si sono realmente arricchiti negli ultimi 30 anni e ora possiedono quote "strategiche" in banche, assicurazioni, giornali) mentre non investe né tutela l’intrapresa, il rischio, la concorrenza, l’innovazione. Anche se poi di voglia “di fare” (proveniente dal basso) personalmente ne noto assai: i miei studenti di Ingegneria a Napoli hanno creato start up, si sono messi a fare distribuzione di software, siti, app e quant’altro già mentre stavano studiando al secondo o terzo o quarto anno. E anche se qualche cosa inizia a vedersi in termini di incubatori universitari (parlo sempre per la realtà di Napoli, che non è l’unica né per forza la migliore in Italia). E’ però ancora un insieme di “eccezioni”che non costituiscono regola, purtroppo. Così ha ragione Draghi, occorrerebbe fare qualcosa di più per i nostri ragazzi, in Italia e in Europa, basta che non ci si limiti a fare discorsi retorici e a dibattere per settimane e mesi senza approdare a soluzioni concrete.